Una disperata voglia di credere, Gaia Scaramella e Glen Sacks
Vi siete mai sentiti secolarizzati?
Rifletteteci bene, quando per voi suona la sveglia, magari dal cellulare, non è mai un rito, è sempre un fastidio, e QUINDI?
Quindi nella vostra agenda giornaliera sopprimete il sacro, mentre in vacanza Dio è morto nei miti dell’estate e va bene così, ma con tutte le parole del caso, perché una cosa è citare Guccini, un’altra è citare quel ridicolo di Vasco Rossi.
Oppure no, sono partita con le accuse troppo frettolosamente, per esempio adesso mi pare già di vedervi mentre scendete nella cripta di una chiesa, magari proprio dove ci sono le spoglie del vostro santo preferito, visto che avrete pure voi una top ten dei santi e una collezione di santini in un album come le figurine panini, vi vedo insomma con i vostri occhiettini che sbrilluccicano riflessi nel metallo dorato degli ex voto appesi alla parete; gambette, criaturielli, cuoricini, e persino qualche squisito quadrettino di barche e tempeste per chi come me viene da un posto di mare.
O magari le vecchie chiese non vi interessano, eppure passeggiando per le vie della vostra città avrete sicuramente visto qualche colorato quanto inaspettato simulacro alla memoria di qualche sventurato deceduto in un punto preciso della strada o della metro; tutto ciò che se siete secolarizzati è solo triste, se non lo siete del tutto è si triste, ma anche molto affascinante.
Sto parlando della religione del popolo, sempre così selvaggia e pagana in tutto il mondo, quel sacro così goffo e così vero che pretende di occupare il suo spazio fisico, tanto da trovarcelo improvvisamente davanti agli occhi quando meno ce lo aspettiamo.
E’ in questa chiave che voglio leggere “Brutti ma Buoni”, la mostra di Gaia Scaramella e Glen Sacks alla Temple University, discostandomi dall’interpretazione etico-culinaria che fin dal titolo è stata ufficialmente scelta.
Lo dico subito a scanso di equivoci, questa qui è roba potente.
La cosa più interessante sono le due diverse materializzazioni del sacro che i due artisti fanno in base alla loro cultura, italiana e americana.
Nelle auto-presentazioni alla parete Glen Sacks mi aveva colpito per la precisione e la profondità della sua ricerca, la quale forse poteva anche sfuggire ad un primo sguardo superficiale, Gaia Scaramella mi aveva invece dato l’impressione di essere troppo accademica verso sé stessa, come se guardasse il suo lavoro dal di fuori con spirito antologico e forse fin troppo calcolo.
Mi è bastato però girarmi verso la parete per rimanere col cuore trafitto, così come tutti quei fogli pieni di incisioni, inchiodati a ricoprire l’intera parete.
Incisioni che approfondiscono in chiave ex voto un repertorio dalle immagini più classiche, cuori, braccia, pezzi, a raffigurazioni più pop, sagome di palestrati, il famoso divano a forma di bocca, sbattendoti davanti agli occhi l’essenza di questo rito: il ringraziamento per aver appagato un disperato desiderio.
Questi chiodi, così efficaci, potrebbero ricordare la crocifissione, o il vodoo, dico a Gaia Scaramella, anche lei dall’aspetto piuttosto stregonesco, che si affretta a specificare: “accetto questi riferimenti, ma non era nelle mie intenzioni dargli quel valore”.
A bella, ma te non lo sai che al giorno d’oggi ce ne frega bene poco di quello che voialtri artisti volevate dire?
In realtà taccio questo mio pensiero dettato certamente da cattive frequentazioni e mi gusto l’assoluto fascino di questa opera; il trasferimento dell’ex voto tridimensionale su una superficie piana, in bianco e nero (tranne che per degli alchemici tocchi di blu e rosso, sangue, polarità, matita per segnare gli errori e tante altre cose) trasla il tutto in una dimensione di riflessione che è propria dell’atto artistico in sé.
Segni e disegni si ripetono ossessivamente, alcuni oggetti sono ripetuti in sequenza come desideri stereotipati, così come può essere l’ex voto che è riprodotto in serie, intense storie diverse tenute e forse banalizzate in un simulacro identico.
Altrettanto profondo è il lavoro fotografico di Glen Sacks. Questo simpaticissimo americano ha girato la sua amata New York e la Philadephia dove risiede alla ricerca degli altari della contemporaneità.
Si tratta di un sacro nascosto tra mucchi di giocattoli alla memoria di un bambino morto, dipinti kitsch agli angoli della strada, ma anche in case sradicate, un po’ hopperiane, dove il senso d’abbandono coincide con la ricerca di una spiritualità commovente per la goffaggine con la quale viene confusamente invocata.
Spogliati dei riti, sembrano dirci le fotografie di Glen Sacks, siamo come dei primitivi che sentono ma non riescono a spiegarsi; noi invece abbiamo perso l’alfabeto, oppure l’abbiamo seppellito sotto l’oro dei fregi delle cattedrali.
C’è un oceano di distanza tra l’approccio europeo al sacro di Gaia e quello decisamente stelle-e-strisce di Glen, il quale dà voce in questi lavori specialmente alle comunità sudamericane, là dove violenza e preghiere sono particolarmente rumorose. E’ Glen stesso che parla con totale sgomento di quello che l’11 settembre ha rappresentato per gli americane, così come “Il re è nudo” per i bambini e “Dio è morto” per Nietzsche (per la versione di Guccini vi rimando all’inizio di questa recensione e chiudiamo il cerchio), insomma, stavo dicendo una cosa seria e mi sono inguaiata con le parentesi, dicevo, l’incapacità di credere, la quale cela proprio una terribile voglia di credere.
Non c’è quasi nulla che importi di più, e questa superba mostra ha una voce profonda, forte, piena di accenti.
Naima Morelli
Inaugurazione martedì 5 ottobre, ore 19, 2010
Temple University Rome Lungotevere Arnaldo da Brescia 15