Naima Morelli

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Obviously openings are not for art appreciation. Openings are for networking, for the glamour of being there, for “bella figura” and so on.
Sometimes though, if you talk with a friend about the opening of the night before, she may happen to mention the art.
Sometimes she would even have an opinion about it. Maybe she went there, she wouldn’t meet anyone she knows already, everyone was grumpy and unfriendly, no buffet even! (so rude).
What was left was to pay attention to the art.

Well, that’s not certainly the case of the recent opening at Volume! Foundation in Rome.
Forget about people being there reporting you about the art. In the opening aftermath the only comment you could collect was: “There were so many people.”
I mean, it was Kounellis opening we are talking about, not a light weight.
You certainly know who Kounellis is, but maybe I can repeat it for the guys who failed in the contemporary art test.
You may argue Kounellis’ worship is mainly in Italy, but then I remind you that his work is exhibited all over the world from Minnesota to Paris.
So, to keep it short, Kounellis is a talented Greek guy who decided to subscribe the art academy in Rome when it was still reputable. (There are still tons of people lured to the art academy in Rome from far countries, and I really feel bad for them).
1960 is the date of Kounellis’ first exhibition at Galleria La Tartaruga in Rome, and in the following years he contributed to the emergence of Arte Povera.
Kounellis, according to the principles of Arte Povera, started using materials from everyday life, animals, fire, bed, stones, iron in his artwork.
He also did some fun stuff artists use to do in Rome in the sixties, like unleash twelve horses in the gallery L’Attico. Just like that, for the sake of art.

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Leave a trace. Recall a feeling. Mark our own path. These are the key needs of a human being.
Among the centuries men modified things all around them, sometimes without utility, just to fight the sense of loss. Basically, this is the reason why the Art started.
This urgency of conservation could show itself as a quick sketch of a bison in Lascaux Caves, or a line “Anna was here” in your school bathroom.
Many contemporary artists work on that concept as well. We can say without any doubt that Richard Long is one of them.

In a private visit to Locarn O’Neill gallery’s last exhibition with a friend of mine, we were struck by the work in the Locarn’s showcase, in the window display between Via Orti d’Alibert and Via della Lungara.
This display is a secondary space where the Locarn Gallery gives a preview of the main attraction in the primary space. The showcase was of a circle of stones pieces, perfectly in line with Long’s way of working. Land Art and other stories like that.

The installation’s name was “Trastevere Spring Circle”, a name that thrilled my friend Mira, who has an obsession with aliens and crop field circles. “This Richard Long… I never heard of him, but maybe he could be one of the Messengers”
“Who are these Messengers?” I asked her
She stared at me, stunned by my ignorance.

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“Quello che noto nelle mie opere è che tu le vedi e dici Uh che carine… ma poi le guardi con più attenzione è AAARRGH! Sono micidiali! Per me questa apparenza innocua è come una specie di presa in giro… e anche io in fondo sono così, più aggressiva di quello che sembro a prima vista!” mi dice Anita Calà in un impeto di passione di cui solo le rosse sono capaci.

Quattro del pomeriggio, siamo sedute, io, lei e  mio cappello (un Borsalino vintage grigio molto ghetto-chic, devo dire) al bar Ombre Rosse in Piazza Sant’Egidio, proprio di fronte al Museo di Roma in Trastevere.
Avevo incontrato l’artista qualche settimana fa alla Galleria Nube di Oort dove è esposta la sua videoistallazione “Anita C” nell’ambito di una collettiva, insomma, un buon pretesto per approfondire il suo lavoro.

La storia di Anita Calà come artista visiva sembrerebbe partire da quando, dalla mattina alla sera, decise di mollare il suo lavoro di costumista ad altissimi livelli per cinema, teatro e televisione, per buttarsi nell’unico ambito dove l’unica certezza è l’incertezza: l’arte contemporanea.
In realtà è cominciata molto prima: “Mi ricordo questa scena delle pagine gialle: ero piccolissima, le scarabocchiavo e nella mia mente ogni pagina era una persona con un suo vestito particolare”

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The Museo di Roma in Trastevere represents, in the city of Rome, the only museum opened to photography in the true sense of the word.

Often you can find there interesting exhibitions on American photographers, like the unforgettable one on Stephen Shore.
These kinds of shows lead the roman audience to a certain vision of photography that is less renowned in Rome, and opens new dialogue possibilities between the city and the subject of the exhibition.
This was the case of Leonard Freed, the famous Magnum photographer.

It was Magnum that starts a weird combination between art and documentary photography, and Leonard Freed was one of them who followed the idea that a snapshot can be interesting, pushing the idea of spontaneity.

It seemed that Leonard had a predilection for Italy. From there the title “Io amo l’Italia”, an exaggerated declaration of love not to be suspected.
Indeed, people came called by Freed’s celebrity, finding something maybe below the level of the photographer’s serious work.
You know, it’s from 2006 that Leonard has been dead, so we can’t absolutely blame him for this exhibition.
Maybe he even hates Italy and he was forced to come. Maybe one time, just one time, he said, to make an Italian friend happy “Iow Aemoh leh’eetalia” with an odd American accent, and the newpapers reports this quote and unfortunately the curator of the exhibition read it and he said “Ok, let’s make an exhibition on Freed’s Italian photos”
So we can’t blame Leonard, really.
We could rather blame the curator, who had to place the photographs he wants to show in the context. That would mean as the context of Italy (and that’s ok) either the modern sensibility of the watcher (and that doesn’t work).

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Luce riflessa, luce artificiale, luce che svela, luce che permette la vita.

Negli spazi della Galleria Locarn O’ Neill a prima vista ci sarebbe da confrontarsi con una scala di grigi 8 bit, che sorpresa allora quando lo spettro luminoso, proprio come una presenza spiritica, appare fugacemente in tutta la sua fantasmagoria.

Si sa che, fin dagli anni novanta, il gallese Wyn Evans, ha cominciato ad interessarsi a quelli che sarebbero diventati gli elementi fondanti della sua ricerca , ovvero un’analisi della percezione, della comunicazione e del linguaggio. Una delle sue prime intuizioni è stata quella delle “sculture di luce”, lampadari o filamenti luminosi, responsabili di più di una scotoma certo, ma anche di grandi coinvolgimenti emotivi, senza accantonare il lato concettuale, seppur anch’esso un po’ romantico (i comandi trasmessi ai computer che regolavano l’accensione random delle illuminazioni, erano basati su traduzioni di segnali morse ricavati dai testi di poeti tenuti in grande considerazione dall’artista, come William Blake, Guy Debord, Maurice Marleau-Ponty).

Lo scorso aprile abbiamo visto una di queste sculture dal titolo “I=N=V=O=C=A=T=I=O=N (I call your image to mind)” al Palazzo della Triennale di Milano, dove l’installazione composta di luci al neon era sospesa ad oltre6 metridi altezza.

I “New Works” invece, questi nuovi lavori di Cerith, non hanno un legame ben preciso tra di loro, si possono vivere come lente scoperte, a patto che il fruitore sappia stare al gioco, diventando un attento esploratore.

La scelta di imprimere argento su argento riproduzioni di massa, in questo caso addirittura fotografie giapponesi prese da riviste anni settanta fa si che, viste frontalmente come si è solitamente abituati, esse siano indecifrabili.

Il fascino di questa operazione sta nell’intuizione da parte di chi guarda che non si tratta di una superficie muta, ma che contiene un segreto da svelare, una verità che si intravede a bagliori, come delle gambe femminili sotto una gonna di veli sovrapposti.

Solamente spostandosi lateralmente infatti, solamente in un punto preciso per ogni lastra, apparirà chiara l’immagine. E la pudicizia nel celare queste fotografie rappresentanti scene di erotismo omosessuale da giornaletto porno con qualche pretesa, crea una sorta di stupore che porta ad un’inevitabile riflessione;

Si tratta di un semplice straniamento seducente, o forse il compito dell’artista è recuperare con la delicatezza della poesia la crudezza dell’immagine mainstream, riabilitare l’erotismo, di qualunque tipo esso si tratti, in una dimensione che non sia quella volgare e spiattellata persino in televisione nelle fasce orarie protette?

L’idea che sia in ballo qualcosa di profondo emerge dalla scritta a neon di fronte alla parete “Soffro per voi, ma come fate?”. Facile che salgano alla mente gli incisi dell’”Edipo Re” di Pasolini, al quale non a caso lo stesso Cerith nel novantotto ha dedicato un lavoro, fuochi d’artificio sulla spiaggia di Ostia, selezionando stralci di dialogo proprio dalla pellicola.

E’ con un senso di fatalità nell’animo quindi, che rivolgendosi a destra si incontra l’opera dal significativo titolo “Untitled (Perfect Lovers +1)” , tre orologi da parete perfettamente sincronizzati, i quali richiamano una visione contemporaneamente metafisica e futuristica dell’amore, del tempo del cuore, del tempo attuale delle relazioni nella vita moderna, in un triangolo che non cessa di comunicare l’inquietudine della precisione e del calcolo.

Non è finita. Cerith modifica l’ambiente della galleria con delle colonne specchianti, il connubio perfetto tra identità e luce, chiamando in causa una volta in più quest’ultima a definire le lettere tagliate nella carta, in un progetto di comunicazione che coinvolge altre opere realizzate stavolta con l’inchiostro nero.

E infine luce che dona la vita, come nell’opera che vede issate su due di tre colonne a specchio un cactus e un’orchidea, nutrite da rimbalzi luminosi.

Ancora tre.

E ancora viene da specchiarsi e riflettere su sé stessi come sotto uno spotlight.

 

Naima Morelli

 

30 September h 6.30 p.m.

Galleria Lorcan O’Neill
via Orti D’Alibert, 1e Roma

(pubblicato su Teknemedia, ottobre 2009)

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