Naima Morelli

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Ho recentemente ritrovato nei meandri di internet un mio articolo del 2008, riguardante gli esami di ammissione in tre delle più prestigiose Accademie di Belle Arti italiane, Roma, Napoli e Firenze. Al tempo mi recai nelle tre città per ovviare alla latitanza di informazioni sul web riguardo agli esami di ammissione, quello che trovai invece fu una sorta di specchio dell’Italia. Agli esordi del 2014 non penso che la situazione sia molto cambiata.

Viaggio tra le Accademie di Belle Arti d’Italia

Le informazioni sulle Accademie di Belle Arti Italiane sono scarse, i siti ufficiali poco aggiornati, le segreterie avare di informazioni, i forum a cui si rivolgono i ragazzi telegrafici. Abbiamo dato un’occhiata alle prove d’ammissione nelle Accademie di Belle arti di Firenze, Roma e Napoli: ecco il verdetto.

“Di dove sei?”
A farmi la domanda è una ragazza dall’aspetto un po’ alternativo, lunghi capelli castano chiaro e look hippie: “Io sono di Bologna, ho fatto il test di ammissione anche là, ma dicono che sono tutti raccomandati, e comunque è meglio farlo da più parti, perché se non entri hai sempre un’altra possibilità”.

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“Incalzatrice della storia Freno del tempo Tu Bomba / Giocattolo dell’universo Massima rapinatrice di cieli Non posso odiarti”

Correndo giù per Via dei Mille nel caldo di un aprile napoletano del duemilaundici, cercando di arrivare al Molo Beverello in tempo per prendere l’Aliscafo dell’una e cinque, vale a dire essere a Sorrento per le due meno un quarto circa, ecco in questa corsa (perché si sa che il movimento fa arieggiare il cervello, purchè non vada in iperventilazione) le immagini della mostra di Zabetta si sovrappongono, si alternano in rima baciata, alternata, incrociata e slogata ai versi di “Bomb” di Gregory Corso.

Sulla rampa di legno vigilata dai Vucumprà, a fianco al Maschio Angioino, inevitabilmente parole e immagini sono già tutta una pappetta, sbatacchiate come un frullatore nella mia testa, non resta che sedersi sull’aliscafo e fare un po’ di ordine.
Dunque, Coda Zabetta non penso proprio che abbia scritto una lettera d’amore alla Bomba, quello è stato Corso. Piuttosto quello di Coda Z. si tratta di un lavoro ordinato che ha condotto a un risultato efficace, puntuale e profetico, come ci hanno tenuto tutti quanti a rimarcare con occhi da Cassandra color acque di Mergellina, alludendo chiaramente alla recentissima tragedia nucleare giapponese.

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This is a short essay about the Italian photographer Sara Magni that I wrote some time ago for the catalogue of “Fuori 5”, an exhibition at Galleria Gallerati, Rome:

“Waking up from a nightmare of desolation, discovering to be frightening and completely alone.
Founding themselves in a cruel and frozen night, in a pasolinian lawn. When the concrete buildings are the background, you suddenly realize that your room’s walls are just a fleeting shelter. Is it all just in our own mind, or is it actually a torched dream?

The series “Doppio Incubo” (Double Nightmare) was realized for the Premio Cairo at the Permanente in Milan. In this work the author explores the theme of man’s estrangement in the city. Sara Magni ventures in the human psyche, taking snapshots directly from the subconscious. She enacts characters that seems out of context, but at the same time she forced us to deal with them. No one has the voice to cry his longing for an “elsewhere”, we can read in his photos a frozen shadow of reality. Her research is displaced in the suburbs and non-places loaded with a reflection or anxiety, a sort of alienation in between Antonioni and David Lynch.

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Ubud, Bali, Indonesia.
Non fatevi ingannare dalla bellezza del posto; dietro la luce che rende smeraldina l’erba, dietro le ranocchie spiaccicate sull’asfalto da jeep di passaggio e dietro le palme che sbadigliano sornione, c’è ancora tanto da fare, tanto da combattere.
Gede lo sa. Gede è nato qui e sua scelta di vita è stata quella di tornare a vivere ad Ubud, nelle risaie, dopo i suoi studi alla prestigiosa accademia d’arte nella capitale culturale dell’Indonesia, Yogyakarta.
Quello che rende la storia e l’arte di Gede così interessante è che, a differenza di molti artisti balinesi in fuga dell’isola o piegati al commerciale, lui ha deciso di rimanere e di condurre la sua battaglia sociale attraverso dipinti dalla satira feroce e plateali installazioni.
L’appuntamento è alla “Luden House”, un Warung/studio artistico inerpicato in una splendida zona di Ubud piena di ville in costruzione.
Se ancora avevo qualche dubbio su come trovare il posto, una grande scritta immacolata in mezzo alla risaia “NOT FOR SALE”, mi segnala di essere arrivata.
Gede, un ragazzo dal sorriso amichevole, si gode il sole ad uno dei tavoli fatto di copertoni verniciati di bianco – in Europa tale arredamento sarebbe già oggetto di design – mentre bambini allegri disegnano tutto intorno e ragazzine si fanno le foto davanti alla risaia.
Cominciamo a parlare in inglese, poi al momento di mostrarmi i suoi quadri, sceglie l’indonesiano.
Mi mostra questa serie di dipinti dove i protagonisti sono una rana avida, e un doberman.

– Di che si tratta questo lavoro?

Questa qui è una serie di cento quadri, non ancora terminata, concepiti come un fumetto. La storia parla di questa rana, rappresentante un po’ tutti i balinesi, che viene convinta da questo cane a vendere il proprio campo di riso.

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La scimmia, animale ancestrale, sommo enigma più volte rappresentato dallo stesso Sergio Ragalzi (un grosso dipinto rappresentante il primate misterioso occupava lo stand della Galleria Delloro alla recente Roma Road to Contemporary Art), deforma anche il volto di queste venti sfingi in via del Paradiso.

Non più umani con il corpo felino, ma maestose sagome con il volto di scimmia, stagliate contro i colori di un deserto puramente mentale, creato apposta per un Indiana Jones o un Corto Maltese, o per qualsiasi altro Edipo viaggiatore dei nostri tempi o di quelli futuri, pronto a sedersi di fronte a lei, silohuette contro silohuette, lasciandosi porre questi indovinello.
Eppure, come il boa del piccolo principe, le sfingi di Ragalzi hanno inghiottito qualcosa che non gli appartiene, fino a diventare un tutt’uno con essa, in un rapporto di precisa identità.
E’ una bomba, il missile intelligente e distruttivo, quell’orrore prodigioso dall’intelligenza matematica. Ma cosa potrebbe chiedere il tremendo siluro alle sue vittime?

C’è sempre un quoziente di enigma in queste guerre senza senso, per noialtri a cui non interessa più di tanto il petrolio, se non al momento di fare il pieno. Petrolio del quale pure queste sfingi dal profilo scimmiesco paiono infradiciate come gabbiani nella marea nera.
Sfingi che sono macchie colpevoli, così come è oscura la colpa di Edipo. Scenari da Arabia Saudita, poi Egitto, ma anche Libia; questi dipinti sono un grido che emettono in coro. Gridano: “Inevitabile!”

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Per aggettivare la Transavanguardia si è spesso scelto come vocabolo “gioia”, il recupero della gioia, qual è quella del dipingere, della figurazione, del colore, della certezza.
Della certezza?

Ognuno la pensi come vuole, ognuno è libero di chiedersi se ha senso ancora la pittura oggi, o addirittura se proprio oggi più che mai ha un senso dipingere.
A voler fare cartine tornasole delle pagine dei quotidiani, la nomina di Sgarbi come curatore del Padiglione Italia alla prossima biennale e come responsabile dell’acquisto delle opere per il Maxxi, è un segnale eloquente di un sentire probabilmente diffuso, almeno in Italia.

A volerlo invece chiedere direttamente a Sandro Chia, ci sentiremmo con ogni probabilità rispondere così come fece in un’intervista trovata su youtube, non avendolo, pover’uomo, né qui disponibile, né possedendo il suo numero di telefono.

Nell’intervista trovata in rete, Sandro ci spiega che, nell’arte come nella vita, siamo arrivati ad un punto nel quale il tempo nel senso darwinistico del termine, quest’idea del progresso, non è più applicabile, non è più vera. E’ come se il Tempo fosse finito, interrotto e questi fossero i tempi supplementari quindi, come in una partita di calcio, ogni ottenimento in questo momento sarebbe determinante.

Può darsi siano passati all’incirca una trentina d’anni dal fischio di inizio di questi supplementari, ma Sandro giustamente continua a testa alta il suo discorso cominciato ai tempi della Trasavanguardia, di cui lui, per proseguire nella metafora calcistica, era, è uno degli attaccanti.

Comunque sia, basta domande, a questo punto sono inutili.
Transavanguardia è stata e Transavanguardia sia, adesso Sandro Chia viene consacrato dalla GNAM, e di tutto ciò noialtri non possiamo che prenderne atto; la storia è stata già scritta e ci sta pure bene così.

Cominciamo dall’inizio, dal sottotitolo: “Della pittura, popolare e nobilissima arte”.

Ah.

Ma chi gli ha dato questo titolo? Achille, più in vena di poesia del solito? Sul nobilissima non c’è dubbio, sul popolare più di uno per la verità.

Per capire quanto di vero c’è in questo titolo avrei dovuto fermare uno dei muratori che al mio passaggio, come d’altronde a quello di ogni essere dalle sembianze vagamente femminili, mi ha squadrata apostrofandomi con un “A bellaaaa… ndò vai?” . L’avrei dovuto trascinare ancora tutto pieno di calce fin dentro Villa Borghese, poi farlo trottare su per i gradini della Galleria Nazionale e metterlo di fronte ai dipinti della mostra in questione. Con tutti i suoi pregiudizi dettati da una pessima se non nulla educazione artistica, con la sua probabilmente scarsa sensibilità (dedotta non dall’essere muratore ma dal suo apostrofare senza ritegno giovincelle per strada), che cosa penserebbe dunque questo individuo della pittura di Sandro Chia?

Mi risponderai Sandro, (al diavolo la professionalità) se quando mi verrai a trovare a casa un pomeriggio ti chiederò se credi in un’arte democratica?

Comunque sia, qualcosa di immediato, di sentimentale, agli animi un minimo superiori al volgo-maria-de-filippi, Sandro Chia lo dice, eccettuando derive sentimentalistiche come “Single Winged Angel”, l’angelo con una sola ala, un cuore tra le mani, in cerca di un altro angelo monoalare senza il quale spiccare il volo sarebbe impossibile, una sorta di androgino versione emo (chiedete di questo movimento giovanile giù nella vicina Piazza del Popolo a quei tipacci tristi sotto le chiese gemelle) scultura la quale forse garberebbe pure a Federico Moccia and friends.

Meno male che un altro gruppo scultoreo, le bagnanti, viene a riscattare l’artista, con il suo carico di sogno e proiezioni evocate dalle due figure che si specchiano l’una nell’altra attraverso il foro in un muro divisorio.

Ma passiamo alla pittura, mezzo espressivo principale dell’attività pittorica di Chia.

Non voglio esaltare positivamente il fatto che nei dipinti si leggano di volta in volta chiaramente Chagall, Picasso, Cezanne, De Chirico, Savinio, Carrà, Picabia etc., né ho intenzione di criticarlo per questo (se non altro perché poi non mi verrebbe più a trovare a casa un pomeriggio come gli sto chiedendo dall’inizio di questo articolo).

Evidentemente Chagall, Picasso, Cezanne, De Chirico, Savinio, Carrà, Picabia  sono il suo modo. Il suo mondo.

A lui sono chiaramente piaciuti di volta in volta Chagall, Picasso, Cezanne, De Chirico, Savinio, Carrà, Picabia, e ha deciso, forse nemmeno volontariamente, di attingere a Chagall, Picasso, Cezanne, De Chirico, Savinio, Carrà, Picabia. Non voglio chiamarlo “ecletticità dello stile”, né osare accusarlo di “mancanza di uno stile personale”. E’ un dato di fatto, ma questo modo di procedere, capirete, può creare capolavori tanto quanto quadri inutili. Toccherebbe perciò disquisire di ogni dipinto come un discorso a sé, in mancanza di un’unità sia stilistica che contenutistica se non un certo interesse per la figura umana e i suoi stati d’animo.

Se è vero che ce n’è per tutti i gusti, ecco allora una personale selezione gourmand: il meraviglioso “Fire Game”, dove il colore ancora vivo e materico sulla tela grezza sembra fiammeggiare con impeto, “La cucina di Dioniso”, un’esplosione di bellezza ed energia pura, la vera gioia del colore, e “Salve a te vecchio Oceano”, tre balene in scala simili a sardine in un cartoccio, adagiate su una tela di cui si legge ancora la trama, ricordando quasi una rete da pesca.

C’è dunque gioia nel percorso pittorico di Sandro Chia, “liberato dalla schiavitù della novità”, come si dice sempre dei membri dell’allegra compagnia della transavanguardia? Lo chiedo al muratore di cui sopra: “Avoja”

C’è qualcosa che importi di più di questo?

Naima Morelli

Sandro Chia. Della Pittura, popolare e nobilissima arte.
Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma
16/12/2009
28/02/2010

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Sulla pittura di questi tempi se ne dicono più che sul punk dieci anni fa; la pittura è morta, la pittura non morirà mai, la pittura esiste solo perché è una certezza per i non-introdotti all’arte contemporanea e così via.
Ognuno ha la sua opinione e a maggior ragione un pittore contemporaneo come Gèrard Garouste ne ha una, e la grida con fermezza dalla sua retrospettiva a Villa Medici.
Sappiamo che dopo la batosta dell’invenzione della fotografia, il colpo di grazia alla pittura è stato inferto da quell’ottimo giocatore di scacchi qual’era Duchamp.

Se per molti la lezione di Marcel è equivalsa ad un superamento della pittura, Garouste ne ha ritenuto l’insegnamento opposto; vista la saturazione della sperimentazione pittorica la quale ha portato appunto all’invenzione del ready made “la pittura deve ritornare a soggetti complessi, rivolgendosi al suo passato”.
Orrore e raccapriccio, un ritorno al più oscuro, simbolista figurativismo! Ma sarà poi davvero orrore e raccapriccio?

Garouste ha assimila le avanguardie, si confronta con i grandi maestri della storia della pittura, si ispira alla Bibbia, alla Divina Commedia, a Don Chisciotte, alla Haggadah ebraica, trasferisce il tutto su tele generalmente di grande formato, o addirittura tele indiane (vale a dire senza telaio).

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