Naima Morelli

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Tag "patti smith"

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Many moons ago, when was a graffiti artist in Rome, I was introduced to Roman rap music by my then-boyfriend, who used to wear annoying hip hop clothes and a very nice rapper hat. I didn’t know anything about rap back then. I grew up on punk rock and when came to the spoken word I couldn’t go farther than Patti Smith’s “Piss Factory” – which still hold the title the most moving songs about ambition and an aesthetic vision of life, if you ask me.

Anyway, at the time I was listening to all those people you probably never heard of unless you are from Rome and you wear annoying hip hop clothes. Corveleno was my favourite rap group, followed by Colle Der Fomento, Gente de Borgata and – here I have some reticence to admit it – Noyz Narcoz and Saga Er Secco. As bad as it sounds, my writing style in Italian was heavily influenced by that music. You should read my art reviews from that time on Art a Part of Cul(ure). Imagine reviewing Sandro Chia with this super aggressive attitude – which let’s be honest, the Transavanguardia deserves a little bit. Plus, those reviews were great fun to write. I remember a mail exchange with Art a Part of Cult(ure) director Barbara – who usually let me go away with everything – saying: “Don’t you think that passage is a little offensive?” Offensive was a nice way to describe that passage.

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There is a mesmerizing Patti Smith’s song I used to listen to when I was in my teens. It’s called “Land” and tells – in a very surreal way – the story of this guy called Johnny. Since the chord progression wasn’t too complicatedly, I quickly learned to play it on the guitar. There was a particular line that made me pretty excited when I sang it. It was “I hold the key to the sea of possibilities”.

When I was seventeen I had a number of small abilities, but very little how-to knowledge.
My guitar practice alone branched off into my folk Neapolitan repertoire, my intimate Carla Bruni-like songs and my love for punk rock. These three aesthetics were not conflicting to me. That was confirmed by reading on a magazine that Norah Jones also had a punk band. I thought, if she does it, why I shouldn’t? (Well, if you have ever heard me singing and playing, the answer is pretty straightforward).

Way before I would learn the position for a E chord, I was making been comic books. Since I was born, I have never stopped drawing and creating stories. As often happens, I started making comic books since I was in high school and my school mates were my first readers. Never in my life I considered to stop that. Then of course, there was the writing. I was that annoying kid asked by the teacher to stand up and read her essay out loud. I didn’t really like to do that, mostly because my pulp Tarantino-confronts-Romero-on-the-theme-of-abortion like essays were meant to be read with a little verve. Which I completely lacked of . Anyways, at eighteen I started writing for an art magazine and a number of rock and general publications. Around the same time, I started covering every blank spot I could find in the city with graffiti. Man, that was real fun!

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“Heroinas”, appena conclusa negli spazi del Museo Tyssen e alla Fondazione Caja Madrid, è una di quelle rare mostre che oltre a porre dei problemi, una caratteristica tipica del contemporaneo, si preoccupa anche di risolverli.

Il problema in questione, di scottante attualità, è quello delle rappresentazioni della donna, qui risolto con un taglio curatoriale degno del miglior sarto madrileno; la scelta è quella di attingere in primo luogo al mito, substrato profondo di tutta la cultura europea, interpretato alle volte in maniera filologica, rileggendo figure sottovalutate, a volte in maniera polemica, operando un capovolgimento dei ruoli. D’altronde, come ci ricordare il Direttore Artistico Guillermo Solana: “Le femministe hanno spesso trasformato gli stereotipi misogini in immagini sovversive”.
Tutto questo senza tradire lo spirito degli artisti in mostra, molti dei quali, per semplici motivi cronologici, non potevano certo prendere parte al dibattito sul femminile, eppure ci hanno restituito delle eroine di grande intensità e complessità emotiva, mettendo in crisi la monolitica dicotomia Madonna rassicurante-Venere seducente, maternità e oggetto erotico, che troppo spesso si è trasformata in una lettura di molte figure della storia dell’arte, oltre a sembrare, come sappiamo, il bivio obbligato per il quale ogni adolescente degli anni 2000 debba passare.
Spiega Solana:”La storia della cultura occidentale è piena di immagini di donne seduttive, indulgenti, sottomesse, sconfitte e schiavizzate. Ma questa esposizione è centrata su donne forti: attive, indipendenti, sfidanti, ispirate, creative, dominatrici e trionfanti, o, per usare una parola chiave delle femministe, questa mostra comprende immagini che siano fonte di “empowerment” per le donne stesse”
Non più oggetto ma finalmente soggetto, insomma.

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Potrebbe essere solo una posa, questo è vero, ma d’altronde quando si sceglie di fare l’intellettuale alternativo e ci si riesce pure, non è  categoricamente ammesso soddisfare le legittime aspettative di nessuno, né del più accanito fan né del più severo critico.
Infatti, ecco che vediamo che quanto più i critici musicali e gli ammiratori si accaniscono a dare del “poeta” al proprio beniamino, con la chiara intenzione di fargli un complimento, tanto più il beniamino stesso rifiuta sdegnoso la definizione.

A parte il fatto che i fan non hanno un minimo di buon senso; basti pensare che chiamano poeta pure Ville Valo degli HIM che certo, come musicista sa il fatto suo, sicuramente ha un’ugola d’oro, senza ombra di dubbio è un gran bel ragazzetto, ma in quanto a ispirazione omerica stiamo messi male. Chiariamoci: niente in contrario a continuare ad utilizzare i soliti ritriti concetti legati a amore e morte e farlo anche in maniera abbastanza banale, e d’altronde lo stesso cantante degli HIM non ha mai avanzato nessuna pretesa, quindi il problema non si pone per nessuno! Insomma, chissenefrega se sotto i video di YouTube le ammiratrici in fregola, solitamente ragazzine che non superano i diciannove anni, scrivono di Ville “Che uomo, che poeta” (“com’è sexy” “me lo farei proprio” etc. etc.) , problemi loro, quelli sono i loro orizzonti, probabilmente lo scrivono anche di Bill Kaulitz sotto i video dei Tokio Hotel (dove ad ogni “che uomo” segue un’inevitabile, oramai prevedibile “Perché? E’ un’uomo?”), ma di questo non sono sicura perché francamente non ho mai sentito l’esigenza di andare vedere un video dei quattro marmocchi tedeschi.

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Maledetto.
Maledetto è l’aggettivo che svela il collegamento tra rock’n roll e la boheme.
Già la beat generation aveva attinto a piene mani dall’opera dei maudits e dopo di loro i poeti-rockstar hanno guardato ad entrambi; eppure questa roba, queste immagini, questa attitudine, è tutta ancora valida, sempre bollente, mai totalmente innocua.
C’è poco da fare; nessun accademico, pur inserendolo nelle antologie scolastiche, riuscirà mai a ripulire la reputazione di Arthur Rimbaud, che era un ribelle, un fuggitivo, uno scapestrato, in breve una canaglia, come lo definisce già nel titolo il saggio di Benjamin Fondane (recentemente tradotto da Le Nubi).
Il fatto era che il giovane bohemien odiava la mentalità chiusa e provinciale dei suoi compaesani di Charville, odiava la sua vita grigia, si sentiva oppresso dalla madre, dalla sua eccessiva preoccupazione per la rispettabilità, dalla rigida morale, dalla religione vissuta in maniera soffocante, quindi cos’altro poteva fare, se non fuggire? Fuggì allora, ma non a casa della nonna.
Prese il treno per Parigi.
Fu proprio nell’intenso periodo parigino che scrisse la famosa “Lettera del veggente” dove diceva, in breve, che per pervenire all’ignoto bisognava sregolare i sensi mediante l’uso di droghe, che poi è quello che teorizzerà anche Aldous Huxley prendendo il titolo del suo libro da un famoso verso di William Blake, un altro grande poeta pazzo ispiratore del rock.
Già, “Le porte della percezione”. D’altronde lo sappiamo tutti, gli anni di Huxley erano i ’60 quando rigetto dei valori borghesi e l’abbandono dalla casa parentale erano diventati qualcosa di più della fuga isolata di un ragazzino francese dal ciuffo spettinato.

Ed ecco allora Rimbaud scrivere in una lettera indirizzata al suo professore di Francese, quasi a dare voce a tutti i futuri sessantottini,:“Lei non è più insegnante per me. Io Le dono questo: della satira, come direbbe Lei? Della poesia?È la fantasia, sempre. – Ma, La scongiuro, non sottolinei né con la matita, né troppo con il pensiero…”.

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A guardarlo l’impressione è quella di assistere ad un solenne incontro di tre meravigliose balene argentate ma a quanto pare l’Auditorium di Renzo Piano è come le nuvole: ognuno lo interpreta come vuole, secondo la sua ispirazione del momento.
C’è chi chiama le tre sale scarabei, chi le paragona ad armadilli e diamine! le ho sentite anche paragonate a dei panini avvolti nella carta argentata, ma ufficialmente si chiamano Santa Cecilia, Sinopoli e Petrassi.

In realtà l’Auditorium nasce per l’esigenza di colmare una frattura urbana tra la collina di Parioli e la pianura fluviale del Tevere dove era stato costruito il villaggio olimpico a ridosso del quartiere Flaminio. Nel ’94 il comune di Roma bandisce una gara internazionale, e il progetto vincitore risulterà quello di Renzo Piano, che di concorsi ne ha vinti parecchi (basti pensare che in questo modo ha avuto occasione di realizzare il famosissimo Beaubourg, in collaborazione con Rogers).

Di Piano si è detto che perseguisse “la versatilità poetica delle forme e delle idee”. A guardare la sua opera omnia, almeno fino ad adesso, compiuti da poco 70 anni non dà accenni di voler smettere, è difficile dargli torto. C’è chi lo accusa di non avere uno stile riconoscibile, un complimento per uno per il quale lo stile corrisponde ad una gabbia, le cui sbarre sono i vincoli ad elementi architettonici sempre presenti nell’opera di un architetto; la sfida è attingere da tutti gli stimoli possibili per cambiare ogni volta. Più che i detrattori quindi, sono alcuni estimatori a fargli torto, elevandolo a archistar, una rockstar della progettazione, definizione che a Piano rifiuta. Piuttosto bisogna riconoscere che nel suo Auditorium Parco della Musica di rockstar vere e proprie con tanto di chitarra dalla sua inaugurazione nel 2002 ne sono passate parecchie, visto che il comune di Roma organizza continuamente concerti e spettacoli in questo centro multifunzionale.

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