Naima Morelli

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Tag "Italia"

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Che cos’è il Popolo?
Ci sono solo due modi possibili per rispondere a questa domanda, o chiamare in causa studi antropologici del tipo Fabio Dei, Cirese, De Martino, oppure argomentare con l’arte.
L’una comprensione è intellettuale (vi parleranno di società dei consumi, snaturalizzazione bisogni, egemonizzazione e compagnia), l’altra parla direttamente ad un sentire.
Il lavoro di Angelo Formica, che ho avuto modo di beccare alla fiera Rome Contemporary, va esattamente in quella direzione.

Con un’operazione surrealisticamente a supportare un significato, anzi un’identità, quella popolare più precisamente, Formica gioca con i simboli della tradizione.
Il suo background siciliano (è originario di Milazzo) l’ha immerso fin da bambino in un humus culturale che è riuscito a rielaborare solo una volta trasferitosi a Milano, recuperando quel necessario distacco.
Un po’ come Jorge Amado, grandissimo scrittore del Popolo, il quale riusciva a narrare del suo natio Brasile solo quando si trovava a Parigi.

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markhilton

The Italian magazine Artribune just published the interview I had in Melbourne with the artist Mark Hilton. The interview is part of my reportage about the Melbournian Art Scene.

Here you are the link to the interview

Here you are the pictures from my visit to the artist’s studio

 

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rally

The Italian web magazine Art a Part of Cult(ure) just published my review on the exhibition “Rally – Contemporary Indonesian Art” at the National Gallery of Victoria.  The interview is part of my reportage about Indonesian Contemporary Art.

Here you are the link to the review

Here you are the link to the English translation of the review

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katerina

The italian web magazine Art a Part of Cult(ure) just published the interview I had in Berlin with the curator Katerina Valdivia Bruch. The interview is part of my reportage about Indonesian Contemporary Art.

Here you are the link to the interview

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The Museo di Roma in Trastevere represents, in the city of Rome, the only museum opened to photography in the true sense of the word.

Often you can find there interesting exhibitions on American photographers, like the unforgettable one on Stephen Shore.
These kinds of shows lead the roman audience to a certain vision of photography that is less renowned in Rome, and opens new dialogue possibilities between the city and the subject of the exhibition.
This was the case of Leonard Freed, the famous Magnum photographer.

It was Magnum that starts a weird combination between art and documentary photography, and Leonard Freed was one of them who followed the idea that a snapshot can be interesting, pushing the idea of spontaneity.

It seemed that Leonard had a predilection for Italy. From there the title “Io amo l’Italia”, an exaggerated declaration of love not to be suspected.
Indeed, people came called by Freed’s celebrity, finding something maybe below the level of the photographer’s serious work.
You know, it’s from 2006 that Leonard has been dead, so we can’t absolutely blame him for this exhibition.
Maybe he even hates Italy and he was forced to come. Maybe one time, just one time, he said, to make an Italian friend happy “Iow Aemoh leh’eetalia” with an odd American accent, and the newpapers reports this quote and unfortunately the curator of the exhibition read it and he said “Ok, let’s make an exhibition on Freed’s Italian photos”
So we can’t blame Leonard, really.
We could rather blame the curator, who had to place the photographs he wants to show in the context. That would mean as the context of Italy (and that’s ok) either the modern sensibility of the watcher (and that doesn’t work).

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Ecco cosa vedete, nascosti dietro al vetro a specchio.
In una stanza metafisica, bianca come uno spazio espositivo, io e l’artista Valentina De’ Mathà ci sediamo ad un tavolo candido, sul quale è adagiato un niveo foglio.
Io scrivo una domanda, e in silenzio passo il foglio a Valentina. Lei scrive la risposta, piega la parte superiore della carta in modo che non sia leggibile e mi ripassa il foglio.
Alla ventesima domanda Valentina si alza ed esce. Anche io faccio lo stesso, ma prima apro il foglio e ve lo attacco, dal verso leggibile, al vetro specchio.

C’è scritto questo:

Cosa c’è sotto?

Il caso che non esiste.

Perché vivi in Svizzera?

All’inizio perché ho improvvisamente sentito la necessità di staccarmi dall’Italia e soprattutto da Roma, verso la quale avevo un attaccamento morboso. Quindi, al culmine di questa morbosità, ho deciso di tagliare il cordone ombelicale e fuggire via senza guardarmi indietro, ma soprattutto perché mi sono resa conto, con estrema lucidità e amarezza, che l’ Italia non sarebbe stata in grado di darmi le opportunità professionali, il sostegno e i confronti di cui avevo bisogno, e che avrei trovato solo viaggiando.

Non era mio obiettivo trasferirmi in Svizzera, anzi, ma dieci giorni prima di partire verso Berlino ho conosciuto Roger Weiss, fotografo svizzero, colui che poi è diventato mio marito.

Ho visto artisti che sulla carta d’identità hanno scritto “artigiano”, tu invece?

Ho solo il passaporto.

L’hai mai persa la carta d’identità?

Mai.

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Sulla pittura di questi tempi se ne dicono più che sul punk dieci anni fa; la pittura è morta, la pittura non morirà mai, la pittura esiste solo perché è una certezza per i non-introdotti all’arte contemporanea e così via.
Ognuno ha la sua opinione e a maggior ragione un pittore contemporaneo come Gèrard Garouste ne ha una, e la grida con fermezza dalla sua retrospettiva a Villa Medici.
Sappiamo che dopo la batosta dell’invenzione della fotografia, il colpo di grazia alla pittura è stato inferto da quell’ottimo giocatore di scacchi qual’era Duchamp.

Se per molti la lezione di Marcel è equivalsa ad un superamento della pittura, Garouste ne ha ritenuto l’insegnamento opposto; vista la saturazione della sperimentazione pittorica la quale ha portato appunto all’invenzione del ready made “la pittura deve ritornare a soggetti complessi, rivolgendosi al suo passato”.
Orrore e raccapriccio, un ritorno al più oscuro, simbolista figurativismo! Ma sarà poi davvero orrore e raccapriccio?

Garouste ha assimila le avanguardie, si confronta con i grandi maestri della storia della pittura, si ispira alla Bibbia, alla Divina Commedia, a Don Chisciotte, alla Haggadah ebraica, trasferisce il tutto su tele generalmente di grande formato, o addirittura tele indiane (vale a dire senza telaio).

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1971, Milano. 1970 Tokio.

Un anno di differenza per due artisti, la prima italiana, il secondo, nonostante il luogo di nascita, tedeschissimo. Linguaggi diversi, ma poi nemmeno tanto, in quanto entrambi influenzati fortemente dall’estetica pop e accomunati da una regola portante per tutto il loro lavoro: la provocazione.

E’ nell’ambito della rassegna “Soltanto un quadro al massimo”, ideata da Ludovico Pratesi e dal direttore dell’Accademia Tedesca di Villa Massimo dr. Joachim Bluher che il confronto tra i due artisti di fa esplicito. Il ciclo espositivo, giunto oramai alla decima edizione, fa dialogare, ma anche amichevolmente scontrare, due opere appartenenti rispettivamente ad un’artista italiano e ad uno tedesco. 

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