Naima Morelli

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Among the art pieces I write each month, every now and then I churn out a funny one. This time the Sorrento local magazine Sorrentum was looking for a short write-up about the participation of the miniature sail boat Stella Maris and its team of two to the annual maritime festival of the French city of Brest (the same one of Jean Genet’s “Querelle de Brest”). Half of the team was Capitain Giancarlo Antonetti – a super-chatty sea dog and certifiable nuts – and the other was my brother, who is by far the sternest and most taciturn person I have ever met.

In the article I imagined the two-days long car trip of the two from Italy to France. You can read the piece on the August issue of Sorrentum or, more straightforwardly, below. It is in Italian, but the title can translate as “Fear and Loathing in Brest”

Paura e Delirio a Brest

Prendete un pizzico di Hunter Thompson e frullatelo con una manciata di Jean Genet, e avrete la nostra rappresentanza sorrentina al Festival Internazionale Marittimo di Brest, in Francia. Questo evento tanto atteso dagli amanti della vela accoglie ad ogni sua edizione migliaia di imbarcazioni da tutto il mondo ed è volto far conoscere ai visitatori le diverse culture marittime.

A tenere alta la bandiera sorrentina, anzi, la vela a tarchia, è il comandante Giancarlo Antonetti, l’esuberante fondatore dell’associazione velistica che da sempre si fa promotore di questa antica tradizione in penisola, affiancato in veste straordinaria dal compassato Leandro Morelli, un nome che solo di recente comincia a risuonare nell’ambito nautico, ma che già è noto in alcuni circoli ginnici sorrentini per far sospirare più di una donzella.

Ed ora immaginate questo improbabile duo, il vivace e chiacchierone Giancarlo strizzato in una striminzita minicooper color petrolio con il laconico Leandro, un duo lanciato sotto l’infinita tratta del traforo del Monte Bianco con una piccola feluca pericolosamente legata sul tetto, ed ecco, avrete davanti a voi il girone che Dante aveva lasciato fuori dall’Inferno per premura.

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erika

The italian web magazine Artribune just published the interview I had in Berlin with the collector Erika Hoffmann in her home/museum.

Lucas Leo Catalano took some pictures that give you an idea of how it was there. Amazing, in one word. Supercool.

Here you are the link to the interview

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Sulla pittura di questi tempi se ne dicono più che sul punk dieci anni fa; la pittura è morta, la pittura non morirà mai, la pittura esiste solo perché è una certezza per i non-introdotti all’arte contemporanea e così via.
Ognuno ha la sua opinione e a maggior ragione un pittore contemporaneo come Gèrard Garouste ne ha una, e la grida con fermezza dalla sua retrospettiva a Villa Medici.
Sappiamo che dopo la batosta dell’invenzione della fotografia, il colpo di grazia alla pittura è stato inferto da quell’ottimo giocatore di scacchi qual’era Duchamp.

Se per molti la lezione di Marcel è equivalsa ad un superamento della pittura, Garouste ne ha ritenuto l’insegnamento opposto; vista la saturazione della sperimentazione pittorica la quale ha portato appunto all’invenzione del ready made “la pittura deve ritornare a soggetti complessi, rivolgendosi al suo passato”.
Orrore e raccapriccio, un ritorno al più oscuro, simbolista figurativismo! Ma sarà poi davvero orrore e raccapriccio?

Garouste ha assimila le avanguardie, si confronta con i grandi maestri della storia della pittura, si ispira alla Bibbia, alla Divina Commedia, a Don Chisciotte, alla Haggadah ebraica, trasferisce il tutto su tele generalmente di grande formato, o addirittura tele indiane (vale a dire senza telaio).

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Maledetto.
Maledetto è l’aggettivo che svela il collegamento tra rock’n roll e la boheme.
Già la beat generation aveva attinto a piene mani dall’opera dei maudits e dopo di loro i poeti-rockstar hanno guardato ad entrambi; eppure questa roba, queste immagini, questa attitudine, è tutta ancora valida, sempre bollente, mai totalmente innocua.
C’è poco da fare; nessun accademico, pur inserendolo nelle antologie scolastiche, riuscirà mai a ripulire la reputazione di Arthur Rimbaud, che era un ribelle, un fuggitivo, uno scapestrato, in breve una canaglia, come lo definisce già nel titolo il saggio di Benjamin Fondane (recentemente tradotto da Le Nubi).
Il fatto era che il giovane bohemien odiava la mentalità chiusa e provinciale dei suoi compaesani di Charville, odiava la sua vita grigia, si sentiva oppresso dalla madre, dalla sua eccessiva preoccupazione per la rispettabilità, dalla rigida morale, dalla religione vissuta in maniera soffocante, quindi cos’altro poteva fare, se non fuggire? Fuggì allora, ma non a casa della nonna.
Prese il treno per Parigi.
Fu proprio nell’intenso periodo parigino che scrisse la famosa “Lettera del veggente” dove diceva, in breve, che per pervenire all’ignoto bisognava sregolare i sensi mediante l’uso di droghe, che poi è quello che teorizzerà anche Aldous Huxley prendendo il titolo del suo libro da un famoso verso di William Blake, un altro grande poeta pazzo ispiratore del rock.
Già, “Le porte della percezione”. D’altronde lo sappiamo tutti, gli anni di Huxley erano i ’60 quando rigetto dei valori borghesi e l’abbandono dalla casa parentale erano diventati qualcosa di più della fuga isolata di un ragazzino francese dal ciuffo spettinato.

Ed ecco allora Rimbaud scrivere in una lettera indirizzata al suo professore di Francese, quasi a dare voce a tutti i futuri sessantottini,:“Lei non è più insegnante per me. Io Le dono questo: della satira, come direbbe Lei? Della poesia?È la fantasia, sempre. – Ma, La scongiuro, non sottolinei né con la matita, né troppo con il pensiero…”.

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