Times of Malta’s Sunday magazine Escape has published my review on Fotografia, the international photography festival of Rome. It was good fun to write it – and if you are wondering how the selfie mentioned in the article actually looks like, look no further.
The Italian magazine Art a Part of Cult(ure) has just published my review of Ana Gloria Salvia’s exhibition “Archi_Cuba” at PAN, Naples
Read MoreIf you think that in the eighties in Italy there were just Loredana Bertè, Donatella Rettore and the Diaframma to dress weirdly, you are wrong. The eighties in Italy were truly rad. (If you are not Italian there are good chances you never hear of Loredana Bertè, Donatella Rettore and especially the Diaframma).
Anyways, if you have any doubt about the radness of the eighties in Italy, you should check st. foto libreria galleria, ironically just two steps away from the Vatican. You will be surprised to know that all the people looking at you from the pictures on the wall were actually everyday roman people, except that by night they transformed into dark eighties rockers.
The photographic work of Dino Ignani is anthropological. The portraits are almost segnaletic pictures, with a neutral background and no particular choice of light or pose.
He was “archiving” the underground dark scene of Rome. All these young people were photographed in roman discos and they dressed up for the occasion.
“It was startling to see all these people coming at the opening of the exhibition” said curator Paola Paleari ” you can tell that there were the same people of the pictures, but they look cleaned up from that dark look and even their attitude was different”.
It was an interesting choice from the st gallery to cover this less-known period of the Italian recent history, focusing on that particular community. For some it would be nostalgia, for some others even inspirational. Eighties are back.
Read MoreThe Italian web magazine Art a Part of Cult(ure) has just published my review of the Katrien de Blauwer’s exhibition “Where will we hide” at Galleria 291 est, Rome.
Here you are the link to the review
Read More“Ogni foto è un’esperienza.” conclude con accento francese, capello bizzarro, faccia gentile Alain Fleischer.
Prima di questa conclusione c’è ovviamente tutto il lavoro in mostra da Limen OttoNoveCinque, fotografie ad un primo sguardo cariche di mistero e quasi indecifrabili.
Il ciclo fotografico principale “Happy Days”, consiste in grandi stampe dove provare a descrivere il soggetto è già avventurarsi in un sogno surrealista: una cornice per terra, una proiezione di protagoniste femminili da quadri dell’antichità, un giocattolo a motore raddoppiato che sembra agitare la scena.
Gli effetti di sovrapposizione e illusione farebbero pensare ad un banale utilizzo di Photoshop: niente di più sbagliato. A differenza di quanto si possa credere, è solo questione di una grandissima abilità tecnica. Non di meno il processo con cui sono stati presi questi scatti è parte del simbolismo delle opere.
Spiega l’artista che si tratta della creazione di un collegamento del mondo adulto con quello infantile: “Gli adulti attaccano i quadri sempre alle pareti, i bambini giocano per terra. Ecco che proiettando un’immagine dall’alto, emerge questa impalpabile relazione.”
E si ci potrebbe inoltrare ancora più addentro a queste Correspondaces, in un gioco di rimandi infiniti.
« E’ la dimostrazione del potere della fotografia di catturare l’impalpabile ; io non ho mai visto queste immagini, esse esistono solo in quanto sono state fotografate. Questo giocattolo lo vediamo multiplo solo per via dei tempi di esposizione, così come questa proiezione che sembra scivolare fuori dal suo frame. »
Si avverte molta nostalgia in questi scatti, una suggestione malinconica come se l’artista volesse ricomporre il passato attraverso frammenti di luce.
Carpisco brani di discorso di un fruitore dalla fluente chioma rossa vicino a me : « … un ES invisibile che genera un superio etereo…»
« Prego? »
Tano D’Amico lancia al registratore appoggiato sul tavolino uno sguardo lungo, obliquo, minaccioso, di assoluta disapprovazione. E si che è stato lui a dire che la macchina fotografica è stupida, ragionevolmente non considererà un registratore tanto più intelligente: “Preferisco che tu scriva quello che ti rimane impresso.”
Siamo seduti ad un bar vicino l’Accademia di Belle Arti di Roma, in Via di Ripetta, e già qualche studente si è seduto al tavolo con noi, accolto con allegria da Tano.
C’è un’empatia naturale e reciproca tra i ragazzi e il “loro” fotoreporter, quello che gli ha fornito le immagini mitologiche delle rivolte studentesche, dagli anni ’70 fino ad oggi, oltre le banalizzazioni “pornografiche”, come le definisce lo stesso D’Amico, che i media erogano a getto continuo: “Sono immagini brutte, che non aiutano a vivere, bloccano la memoria, spesso non aiutano nemmeno ad esorcizzare il presente. Sono immagini fatti con gli occhi del boia, in una sorta di compiacimento della crudeltà, con l’alibi della documentazione. In queste immagini il carnefice ha un quoziente di umanità maggiore della vittima e sono indispensabili per chi comanda.
Sarà anche inserita all’interno del Festival Internazione della Fotografia di Roma, ma la mostra “Il teatro dell’effimero”, comprensiva di più di trenta scatti che ripercorrono l’attività di Giuseppe Desiato dal ‘60 al ‘78, è molto di più.
Forse.
Ecco, la prima impressione è di smarrimento.
Bisogna prendere le foto esposte per fotografia vera e propria, imbattendosi così in istantanee strappate ad un mondo onirico, oppure bisogna vederle come documentazione delle perfomance messe in scena da Giuseppe Desiato?
E’ questo il bello, e forse si tratta proprio la stessa cosa di cui ci parlano le donne, gli uomini, i bambini e i manichini un po’ sfocati dentro le loro cornici: la fluidità delle cose.