Naima Morelli

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Tag "arte contemporanea"

Al ritorno dalla mostra in Via del Vantaggio, sede della Galleria Mara Coccia, fino a casa mia in Piazza Vittorio (non vi do l’indirizzo preciso perché non voglio i vostri bravi ad aspettarmi sotto casa dopo che avrete letto questa recensione), sono state tre le cose che mi hanno colpito assai di più che la mostra che mi ha spinto fuori dall’uscio.

In ordine: le ragazzine sotto la metro che commentavano l’appena conclusa settimana della cultura “…perché le cose gratuite fanno schifo, tipo Palazzo Barberini…” , poi un chitarrista in Piazza del Popolo che suonava ispirato Tracy Chapman, interrotto bruscamente da un’esplosione di una sigla assordante dal palco montato lì vicino, con tanto di ballerini vestiti da conigli che si lanciano sulla scena provando la coreografia, e tre una bionda malinconica simile a una giovane Marianne Faithfull seduta ai tavolini del Bar Rosati.

Tranches de vie irripetibili che sarebbe quantomeno inutile paragonare ai dipinti di Claudia Peill.

Certo, direte voi, la vita è sempre superiore all’arte, figuriamoci se non è superiore a IKEA.

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The American magazine NY Arts published my review of Mircea Cantor exhibition at MACRO, Rome with the title “Mircea Cantor: The World is Changing”

Here you are the link to the review

Here you are the editorial preview on NY Arts Tumbrl

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Ricordate quando da bambini facevate i funerali agli uccellini morti nel giardino? Gli costruivate una piccola tomba, scavavate un fosso e lo cospargevate di fiori. Poi cantavate una preghierina mentre gli altri bambini vi stavano a guardare.
Come? Non avevate un giardino da piccoli?

Mi dispiace per voi, ma sono certa abbiate senz’altro la prontezza di immaginarvi in ogni dettaglio la commovente scena, e dunque di capire lo spirito di fondo con il quale Robberto (uno dei più validi tra i nuovi artisti sfornati dall’Accademia di Belle Arti), ha deciso di muoversi per questa performance.

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Quanta ironia nel collocare una mostra dal titolo “Paura dell’Altro” proprio in una chiesa, quantunque sconsacrata: “Non ti dico che casino conla Sovraintendenzaper collocare la scimmia di Ragalzi sull’altare”, mi dice avviluppato in una mantella beige Carlo Pratis della Galleria Delloro (galleria tra i quali artisti figurano Paolo Grassino e, appunto, Sergio Ragalzi).
Ma andiamo ai fatti e bando all’anticlericalismo, che pure quella è una moda, e d’altronde il Papa ha pure ammesso che nelle Crociate c’era un piccolo errorino.

Si parlava di scimmie.
Allora, ce l’avete presente quando nel Libro della Giugla c’è quel tempio abbandonato, occupato (nel senso centrocialesco del termine) da oranghi?
Ecco, prendete quell’emozione che, sono certa, avrete senz’altro provato con i vostri nipotini o figlioletti sulle gambe, o magari proprio voi stessi in braccio a papino e mammina.
Prendete quell’emozione e intingetela in quelle notti dove, un po’ più grandicelli, non riuscivate a prendere sonno per paura della morte, del nulla: avrete Ragalzi con sua serie delle scimmie.

Può darsi non vi basti. Può darsi sentiate la necessità di contestualizzare la cosa.
Bene.

Immaginate di essere nati a Bassano del Grappa, e di avere nel cassetto un fazzoletto della Lega Nord, con vostra moglie sprezzante che lo usa per pulire il vaso da notte sotto il giaciglio coniugale. La vostra casa, nonostante l’opposizione della consorte dotata di un minimo di buon gusto, tracima di cianfrusaglie padane, suppellettili di legno, centrotavola rustici e coltellini svizzeri. L’arredamento in effetti sembra voler soffocare un certo horror vacui ma, ebbene si, tirando via il sipario è proprio questo che rimane: il Grande Vuoto.

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Ecco cosa vedete, nascosti dietro al vetro a specchio.
In una stanza metafisica, bianca come uno spazio espositivo, io e l’artista Valentina De’ Mathà ci sediamo ad un tavolo candido, sul quale è adagiato un niveo foglio.
Io scrivo una domanda, e in silenzio passo il foglio a Valentina. Lei scrive la risposta, piega la parte superiore della carta in modo che non sia leggibile e mi ripassa il foglio.
Alla ventesima domanda Valentina si alza ed esce. Anche io faccio lo stesso, ma prima apro il foglio e ve lo attacco, dal verso leggibile, al vetro specchio.

C’è scritto questo:

Cosa c’è sotto?

Il caso che non esiste.

Perché vivi in Svizzera?

All’inizio perché ho improvvisamente sentito la necessità di staccarmi dall’Italia e soprattutto da Roma, verso la quale avevo un attaccamento morboso. Quindi, al culmine di questa morbosità, ho deciso di tagliare il cordone ombelicale e fuggire via senza guardarmi indietro, ma soprattutto perché mi sono resa conto, con estrema lucidità e amarezza, che l’ Italia non sarebbe stata in grado di darmi le opportunità professionali, il sostegno e i confronti di cui avevo bisogno, e che avrei trovato solo viaggiando.

Non era mio obiettivo trasferirmi in Svizzera, anzi, ma dieci giorni prima di partire verso Berlino ho conosciuto Roger Weiss, fotografo svizzero, colui che poi è diventato mio marito.

Ho visto artisti che sulla carta d’identità hanno scritto “artigiano”, tu invece?

Ho solo il passaporto.

L’hai mai persa la carta d’identità?

Mai.

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L’arte di Ragalzi sono le impressioni tre secondi e mezzo dopo essersi svegliati in seguito ad una caduta dal letto.

Si dal caso che la sera dell’inaugurazione dal letto era caduta una bella folla, e la formula della Galleria Delloro, che potrebbero inserire a fianco al loro logo tipo barretta kinder +latte –cacao, è invece +vivacità –biondone da vernissage. L’età media infatti attorno a questa galleria si abbassa, nonostante gli artisti proposti non sono propriamente dei pischelletti, ma chissà, saranno i galleristi che parlano del lavoro di Ragalzi come se si trattasse dell’ultimo album della loro rockstar preferita (e in effetti nelle opere di Sergio qualche accordo di un certo tipo di metal risuona limpido), saranno strane sostanze dai poteri persuasivi disciolte nel soave vino, sarà insomma qualcosa di significativo che porta sangue giovane nell’angolo di Piazza Dell’Oro, dove si trova appunto l’omonima galleria.

Do di gomito a una sconosciuta di fronte alle “opere foglia” alla parete, e lei come azionata dà il suo parere con voce spiritata “Sergio… ha questo linguaggio archetipale… perché è difficile sa… parlare in maniera così chiara, così chiara” e qui gli occhi cominciano a luccicarle, forse a riempirsi di lacrime? Non mi è dato a sapere perché abbassa immediatamente lo sguardo come a controllarsi qualcosa sotto la punta delle appuntite scarpe “… è molto, molto difficile parlare di archetipi senza cadere… nel banale…nel già visto insomma…” “Muove qualcosa dentro” azzardo io. Lei annuisce in silenzio, mormorando qualcosa di incomprensibile.

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Dopo un interrogatorio durato un’ora e mezza Crewdson non ha sputato il rospo, non ha cantato intendo, e con queste parole voglio dire che non si è lasciato andare a quelle meravigliose rivelazioni che avrebbero sgomentato la platea, ancora più del suo repentino cambiamento di estetica in quest’ultima mostra “Sanctuary”, da Gagosien.

Un po’ una tortura, sebbene sopportata in traduzione simultanea sulle comode poltrone della sala conferenze del MAXXI, il percepire questo sottinteso, questi “motivi personali” colpevoli delle svolta, che il critico del New York Times Michael Kimmelman, quanto mai speranzoso, ha cercato durante tutto il tempo di tirare fuori dalla bocca del reticente artista.

Un breve resoconto del fattaccio: Gregory, quello delle fotografie cinematografiche, quello di “Beneath the Roses”, quello che insomma quando guardate le sue fotografie a David Linch fischiano le orecchie, ebbene proprio lui decide di venire nella Città Eterna.

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Tre stanze, quella della Galleria Ingresso Pericoloso, per cercarsi, e non è forse vero che il modo migliore per trovarsi è comunicarsi?

Lunghe passeggiate dai Fori alle borgate facendo da psichiatra e da paziente ad un amico, in una città che passa dalle vestigia romane ai palazzi di periferia, lasciandosi attraversare da così tante realtà differenti, dalla cosiddetta Dolce Vita agli sberleffi di Montecitorio, ma rimanendo sempre Roma.

Ci hanno costruito dentro in troppi stili diversi e troppo velocemente, potremmo crollare da un momento all’altro, ma possiamo anche avere il privilegio di riuscire sempre diversi, cambiare abiti repentinamente senza apparente continuità e passare da un Borsalino a un berretto da rapper nell’arco di pochi minuti, risultando sempre più o meno credibili.

Per quanto mi riguarda, “Uno, nessuno e centomila” l’ho sempre trovato molto più interessante di “Conosci te stesso”. Peraltro i due motti i non sono necessariamente a contrasto, e forse è proprio questo che grida Pablo Rubio guardando verso l’alto nei suoi numerosi ritratti fotocopiati e trattati ciascuno in maniera diversa; applicazioni di garze, metallo, pittura, collage, tali modificare un aspetto esteriore comune.

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Vi siete mai sentiti secolarizzati?

Rifletteteci bene, quando per voi suona la sveglia, magari dal cellulare, non è mai un rito, è sempre un fastidio, e QUINDI?
Quindi nella vostra agenda giornaliera sopprimete il sacro, mentre in vacanza Dio è morto nei miti dell’estate e va bene così, ma con tutte le parole del caso, perché una cosa è citare Guccini, un’altra è citare quel ridicolo di Vasco Rossi.

Oppure no, sono partita con le accuse troppo frettolosamente, per esempio adesso mi pare già di vedervi mentre scendete nella cripta di una chiesa, magari proprio dove ci sono le spoglie del vostro santo preferito, visto che avrete pure voi una top ten dei santi e una collezione di santini in un album  come le figurine panini, vi vedo insomma con i vostri occhiettini che sbrilluccicano riflessi nel metallo dorato degli ex voto appesi alla parete; gambette, criaturielli, cuoricini, e persino qualche squisito quadrettino di barche e tempeste per chi come me viene da un posto di mare.

O magari le vecchie chiese non vi interessano, eppure passeggiando per le vie della vostra città avrete sicuramente visto qualche colorato quanto inaspettato simulacro alla memoria di qualche sventurato deceduto in un punto preciso della strada o della metro; tutto ciò che se siete secolarizzati è solo triste, se non lo siete del tutto è si triste, ma anche molto affascinante.
Sto parlando della religione del popolo, sempre così selvaggia e pagana in tutto il mondo, quel sacro così goffo e così vero che pretende di occupare il suo spazio fisico, tanto da trovarcelo improvvisamente davanti agli occhi quando meno ce lo aspettiamo.

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Pinocchio è stato inghiottito dalla balena, ma quando si trova nella prima stanza della Galleria Ingresso Pericoloso ancora non lo sa.

Ne vede le vertebre scure, ma crede siano scale, una stairway to heaven a chiocciola la cui sommità non è possibile raggiungere, poi concentra la sua attenzione su delle strutture tubolari simili a flauti, mentre un rumore ancora lieve, vagamente minaccioso, fa da eco ai suoi passi.

Decide di chiamare tutti i suoi amici, quelli del paese del balocchi, con la chiara intenzione di far baldoria in quello spazio tutto bianco interrotto dalle misteriose istallazioni nere.
Non l’avesse mai fatto: il rumore cresce esponenzialmente quanto più Pinocchio e i suoi amici si agitano, diventa insopportabile, l’organismo si ribella, tutti i buttano a terra con le mani sulle orecchie e si dimenano ancora di più, ma il rumore non cessa anzi, aumenta ancora e sembra gridare: “Siete troppi, state fermi, questa vostra smania, andate via, via, via!”

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Sarà anche inserita all’interno del Festival Internazione della Fotografia di Roma, ma la mostra “Il teatro dell’effimero”, comprensiva di più di trenta scatti che ripercorrono l’attività di Giuseppe Desiato dal ‘60 al ‘78, è molto di più.

Forse.
Ecco, la prima impressione è di smarrimento.

Bisogna prendere le foto esposte per fotografia vera e propria, imbattendosi così in istantanee strappate ad un mondo onirico, oppure bisogna vederle come documentazione delle perfomance messe in scena da Giuseppe Desiato?
E’ questo il bello, e forse si tratta proprio la stessa cosa di cui ci parlano le donne, gli uomini, i bambini e i manichini un po’ sfocati dentro le loro cornici: la fluidità delle cose.

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1971, Milano. 1970 Tokio.

Un anno di differenza per due artisti, la prima italiana, il secondo, nonostante il luogo di nascita, tedeschissimo. Linguaggi diversi, ma poi nemmeno tanto, in quanto entrambi influenzati fortemente dall’estetica pop e accomunati da una regola portante per tutto il loro lavoro: la provocazione.

E’ nell’ambito della rassegna “Soltanto un quadro al massimo”, ideata da Ludovico Pratesi e dal direttore dell’Accademia Tedesca di Villa Massimo dr. Joachim Bluher che il confronto tra i due artisti di fa esplicito. Il ciclo espositivo, giunto oramai alla decima edizione, fa dialogare, ma anche amichevolmente scontrare, due opere appartenenti rispettivamente ad un’artista italiano e ad uno tedesco. 

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