Il corpo marionetta nelle mani di quella spocchiosa dell’anima: intervista ad Anita Calà
“Quello che noto nelle mie opere è che tu le vedi e dici Uh che carine… ma poi le guardi con più attenzione è AAARRGH! Sono micidiali! Per me questa apparenza innocua è come una specie di presa in giro… e anche io in fondo sono così, più aggressiva di quello che sembro a prima vista!” mi dice Anita Calà in un impeto di passione di cui solo le rosse sono capaci.
Quattro del pomeriggio, siamo sedute, io, lei e mio cappello (un Borsalino vintage grigio molto ghetto-chic, devo dire) al bar Ombre Rosse in Piazza Sant’Egidio, proprio di fronte al Museo di Roma in Trastevere.
Avevo incontrato l’artista qualche settimana fa alla Galleria Nube di Oort dove è esposta la sua videoistallazione “Anita C” nell’ambito di una collettiva, insomma, un buon pretesto per approfondire il suo lavoro.
La storia di Anita Calà come artista visiva sembrerebbe partire da quando, dalla mattina alla sera, decise di mollare il suo lavoro di costumista ad altissimi livelli per cinema, teatro e televisione, per buttarsi nell’unico ambito dove l’unica certezza è l’incertezza: l’arte contemporanea.
In realtà è cominciata molto prima: “Mi ricordo questa scena delle pagine gialle: ero piccolissima, le scarabocchiavo e nella mia mente ogni pagina era una persona con un suo vestito particolare”
“Ho lasciato il mio lavoro da costumista perché principalmente…non mi facevano fare quello che mi volevo! Non ero libera!” Un sorrisetto le compare sul volto “Ammetto di essere un po’ prepotente…”
Anita però nel frattempo continuava a fare arte per conto proprio ma non mostrandola a nessuno, partendo da disegni su carta, pittura, scultura e poi muovendosi sempre di più verso la fotografia, il video, l’animazione e l’istallazione.
Più recentemente ha deciso di combinare questi mezzi “Ma ti dirò, sono arrivata ad un punto che anche questo mi sembra limitato…guardo i lavori di ieri con sguardo estremamente critico, li riguardo e dico oddioddioddio!!! Portateli via! Quasi li rinnego!”
Lo sguardo si fa serio, mentre mi racconta come si scatena il suo processo creativo, alimentando la leggenda di secoli e secoli di romanticismo sull’artista che, per quanto uno voglia fare il critico progressista, è impossibile smantellare:
“Lo sai le suore e i preti? Per me uguale. L’arte è una vocazione. Io vado a dormire alle tre di notte, alle cinque salto dal letto pervasa da un’idea, metto tutto su carta e torno a dormire. Mi sveglio verso mezzogiorno che ho un’energia incredibile e comincio a lavorare, ma si tratta di piccoli aggiustamenti rispetto all’idea iniziale nata già matura. Il significato io stessa lo capisco solo riguardandole molto tempo dopo. Sono molto istintiva in questo.”
Il corpo come materia. Senti un po’ Anita, ma come mai solo donne?
Il ciuffo rosso dell’artista ha un fremito:“Allora, non vorrei essere etichettata come un’artista che parla del femminile al femminile per un pubblico femminile. Secondo le donne, come materia di lavoro, sono più belle” (il mio cappello adagiato sulla sedia non è tanto d’accordo, mugugna) “Sono più espressive, più emotive e poi, alla fine, sono sempre io!”
Vuoi dire che tutta la tua arte è una sorta di autoritratto?
“Più che altro mi interessa che il fruitore si immedesimi in un sentire che mi appartiene. Chiaramente c’è un gioco di maschere che può essere il volto della persona che fotografo, oppure le scritte che mascherano e trattano in maniera cinica la mia stessa immagine, in un lavoro come in Alter Ego.”
Nella chiacchiera si viene a sapere che Anita ascolta gentaglia come i Chemical Brothers, Daft Punk, Fatboy Slim, Depeche Mode, ma è solo diletto; come audio per i suoi video non utilizza musiche preesistenti, bensì si affida ad un suo amico musicista (anche artista e fotografo), Emanuele Inversi.
“L’iter è questo: io gli mando una mail spiegandogli il progetto ma senza mostrargli il video, il che lo spaventa tantissimo. Non voglio condizionarlo troppo, devono essere due opere separate che si uniranno”
Torniamo ai corpi: tempo fa Anita, ero rimasta colpita da una tua frase lasciata su Facebook. Non te la saprei citare a memoria ma era qualcosa sul fatto che si dà troppa importanza all’anima rispetto al corpo…
La rossa si impettisce e dichiara con voce decisa: “Il corpo è una stupida marionetta nelle mani di quella spocchiosa dell’anima.
L’anima secondo me non esiste senza il corpo. La cosa che mi fa paura è la morte e il nulla dopo, per questo poi corro tanto in questa vita per cercare di completare tutto. Mi fa un po’ pena il corpo che viene abbandonata dall’anima, fa schifo a tutti dopo, puzza, ho più compassione per lui che per l’anima, ecco tutto!”
Chissà come mai, a questo punto invece di avventurarci su filosofeggianti alture in odore di trascendenza, finiamo a parlare della mostra sui corpi plastinati dello scienziato russo di cui ho avuto la premura di dimenticare il nome, che nel suo tour all over the world ha appestato anche Roma.
Anita si era anticipata vedendola a New York un anno e mezzo fa: “Come sono scesa dall’aereo è passato questo autobus con la pubblicità…”
“Che tra parentesi a me sembrava quella di una palestra, con stò scorticato fascio di muscoli che correva!”
“Che schifo!”
“C’aveva wellness scritto in faccia c’aveva…”
“Questo tizio in pratica disfa completamente il corpo, lo disseziona, lo allarga, e a New York c’era un fila di persone che voleva farsi plastinare da morta, na fila immensa davanti a stì tipi in camice che prendevano i nomi, non puoi capire!”
“Ma perché? Io non le comprendo queste cose, di certo io non mi farei plastinare così a cuor leggero…”
“Per me è un provocatore. Un pazzo provocatore”
“Ha anche una faccia da necrofilo mi dicono…”
“Si si, dovresti vederlo, ha anche sempre un cappello in testa uguale al tuo!”
Naima Morelli