Fx Harsono: l’intervista
A Giacarta non si vede un capello biondo nel raggio di miglia, invece, al Ranch Market Cafè, dove mi sono data appuntamento con Fx Harsono, ci sono diversi occidentali.
Il posto, dal look volutamente rustico/chic, si trova nella zona Kemang, una zona dove si potrebbe anche passeggiare, nei limiti che il termine “passeggiare” assume in una città trafficata come Giacarta.
Mi trovo a queste latitudini per realizzare un reportage sull’Arte Contemporanea Indonesiana.
Il giorno prima, fortemente irritata per via del collegamento internet mal funzionante che mi impediva di mandare una mail di conferma all’artista, avevo scaraventato per aria un piatto di riso nel prestigioso centro commerciale “Grand Indonesia”. Fortunatamente il mio compagno di viaggio, il fotoreporter Lucas Catalano, era corso ad interrompere le mie mani mulinanti e a tapparmi la bocca e spingermi con un calcio in bagno, prima che la polizia musulmana mi mettesse al fresco per un’eccessiva espressione di personalità.
Censori.
Alla fine la mail è passata e l’appuntamento è stato fissato.
Mi sembrava giusto cominciare la mia serie di interviste da uno dei pionieri dell’arte contemporanea indonesiana.
Fx Harsono arriva un po’ trafelato, saluta un suo amico musicista al tavolo vicino e ordina da bere.
Comincia a parlare in maniera concitata, spiegandomi con dovizia di dettagli ogni passaggio della storia indonesiana, senza dare nulla per scontato, dimostrandosi sinceramente intenzionato a diffondere la conoscenza di qualcosa che gli sta molto a cuore. Essendo uno dei portabandiera dell’arte contemporanea indonesiana, mi stupisco quando mi racconta di non essere un artista a tempo pieno, e di lavorare come professore e come graphic designer: “Mi dedico all’arte il sabato e la domenica. So che potrebbe sembrare un compromesso, ma proprio per il fatto che l’arte non costituisce il mio sostentamento posso evitare di farla piegare a compromessi.
Tutto è cominciato nel 1965. Mi è capitato di esporre anche prima, nel ’62 e nel ’63, ma ho cominciato a fare seriamente nel 1965. A quei tempi ero uno studente, ed in undici demmo vita a questo movimento chiamato New Art Movement. Quello è stato il primo momento importante nella mia vita artistica.
Com’è cominciato il New Movement? Voi undici artisti vi conoscevate già di persona?
Si, eravamo tutti studenti. A quei tempi percepivamo che era difficile collocarsi come giovane artista. Il nostro sistema educativo era orientato al modernismo occidentale. A quei tempi ci facevamo domande sulla nostra identità. Come avremmo potuto trovare l’identità Indonesiana semplicemente seguendo pratiche occidentali? Abbiamo deciso di prendere le distanze. Ci facevamo domande sulle pratiche artistiche, non avevamo intenzione di fare dei semplici quadri
Quindi a scuola vi insegnavano solo a dipingere?
Ci spingevano nel realizzare quadri in stile impressionista, cubista, espressionista…
… cercavano di mettervi in scatole prefabbricate.
Esatto, e non ci piaceva! Ci siamo detti: “Ok, non vogliamo fare quadri, non vogliamo fare sculture, non vogliamo fare stampe”. Abbiamo trovato il nostro modo di esprimerci con qualsiasi cosa che trovavamo nella nostra vita quotidiana, esponendole in galleria.
Dopodichè ci siamo chiesti: “Di cosa vogliamo parlare?” e abbiamo realizzato di voler parlare dell’Indonesia. Non della tradizione, perché una singola tradizione non poteva certo rappresentare tutte le differenze regionale della vasta Indonesia. Ci sono così tanti gruppi etnici, centinaia di dialetti diversi. Quindi abbiamo pensato, quale condizione può unire gli Indonesiani? E abbiamo realizzato: “Oh, la politica e il sociale”
Non sarà stato semplice sotto il regime repressivo di Suharto…
Si, era un regime molto repressivo. La gente soffriva, non gli era permesso esprimersi, criticare il governo. Era la stessa situazione in tutta l’Indonesia, e noi sentivamo il bisogno di parlarne attraverso l’arte.
Durante il 1965 ci fu un grande massacro in Indonesia. Un sacco di artisti finirono in prigione o vennero uccisi dai militari, perché il loro orientamento politico era comunista. Quindi, da quel momento, nessuno volle più parlare della politica. Ci fu un vero e proprio trauma politico.
Ma noi eravamo giovani nel 1965 e non ne sapevamo molto, quindi abbiamo deciso di parlare della politica.
Come si è comportato il governo rispetto alla vostra arte impegnata?
Per fortuna non capiva che stavamo facendo. Pensavano che le forme di lotta sarebbero potute essere solo la politica stessa, il teatro, la scrittura, la musica, la pittura, ma non l’arte contemporanea. Ma i critici capirono.
A quei tempi dovevamo essere molto astuti e sottili, dovevamo far si che la gente riconoscesse i problemi di cui volevamo parlare nell’arte e allo stesso tempo trovare l’escamotage per non essere mandati in prigione dai militari.
I fraintendimenti sono qualcosa che si verifica anche ogniqualvolta si espone all’estero. C’è bisogno di un minimo di conoscenza della storia dell’Indonesia, parliamo ad un livello molto locale.
Ciononostante negli anni sessanta le incomprensioni ci hanno salvato dalla galera.
Come nel 1993, quando presentai un lavoro composto da fotografie di mani che nel linguaggio dei segni riproducevano la parola DEMOKRASI
E l’ultima mano era stretta da una corda…
Esatto. Quella volta due poliziotti dell’intelligence indonesiana vennero in galleria, era una mia personale, a fare domande. Fortunatamente in quel momento non ero in galleria, ero all’agenzia pubblicitaria dove lavoravo per vivere. Il gallerista fece finta di niente: “Non ho idea di che voglia dire..”
Salvandoti la pelle. Cosa accadde poi dopo?
Come ti dicevo, nel 1965 facemmo questa prima mostra del New Art Movement. Gerakan Seni Rupa Baru in indonesiano. Quattro anni dopo realizzammo che in realtà non ne sapevamo poi così tanto dei problemi politici, sociali e ambientali, perchè tutto ciò che avevamo studiato atteneva solamente al campo artistico.
Non volevamo essere superficiali, quindi abbiamo deciso di imparare, di metterci a studiare di nuovo. Ma a quei tempi l’idea di studiare politica in un percorso istituzionale, all’università per esempio, era inconcepibile.
Oltretutto eravamo molto poveri e la nostra vita quotidiana era fatta di privazioni. Non riuscivo a vendere i miei lavori. Quindi abbiamo deciso di unirci ad un’organizzazione non governativa, un’NGO, l’unica che osava criticare il governo. Cominciammo a collaborare con loro, a fare ricerche. Con l’aiuto di un dottore scoprimmo che nelle zone costiere molta gente era stata avvelenata dal mercurio. A quel punto decidemmo di fare una grande mostra sull’inquinamento di Giacarta a causa degli scarichi industriali.
Da allora ho sempre basato il mio lavoro sulla ricerca. Se vuoi parlare della storia, del sociale, della politica o di qualsiasi altra cosa, devi conoscere a fondo il problema.
Sagge parole. Ma a quei tempi le gallerie erano aperte a questo vostro nuovo modo di lavorare?
Gallerie a Giacarta? Magari! A quei tempi nella capitale esisteva un solo spazio espositivo, il Jakarta Art Council. Non ce ne erano altri. Non c’era altra scelta che fare la nostra mostra in uno spazio appartenente al governo.
Abbastanza ironica come cosa…
Hai voglia! Per fortuna a quei tempi a Giacarta il governatore locale accordava molta libertà alle arti. Infatti venne rimpiazzato presto perché considerato troppo radicale.
C’era interesse nel Council rispetto ai giovani artisti, erano gli stessi direttori a dirci: “Prego, esponete”
Che accoglienza venne riservata all’esposizione?
Ci furono un sacco di critiche. Sul giornale nazionale Kompas nacque un dibattito che durò tre mesi. Avevamo portato una boccata d’aria fresca in quello stantio mondo dell’arte. Il Council ci diede la possibilità di esporre nei loro spazi ogni due anni.
Dopo Suharto voi artisti militanti avevate intrapreso un altro percorso…
Dopo Suharto la politica cambiò, cambiò tutto. Le persone avevano finalmente libertà di parola.
Mi misi a pensare cosa volevo fare adesso, e realizzai che volevo parlare di me stesso. Sono un cinese indonesiano, sono nato in Indonesia ma i miei antenati venivano dalla Cina, si sono stabiliti in Indonesia da cinque generazioni.
I cinesi in Indonesia sono discriminati in quanto minoranza, la gente non li percepisce come parte della nazione. Quindi ho voluto parlare di questo, della storia, e di come anche loro hanno preso parte all’indipendenza dell’Indonesia.
Anche la tua istallazione al MACRO si riferiva a questo tema. Sono rimasta molto colpita dai quadri che hai realizzato a partire dalle foto di tuo padre.
Quel lavoro si riferiva ad un episodio drammatico della storia indonesiana. Durante gli anni cinquanta moltissimi cinesi indonesiani vennero uccisi e gettati in fosse comuni. Mio padre era uno dei fotografi che documentò quella strage. Quando trovai quelle vecchie foto mi misi a cercare i posti dove erano state scattate. Feci ricerche e interviste nel mio villaggio d’origine e realizzai opere d’arte che denunciavano una tragedia di cui nessuno parlava. Vedendo la mostra improvvisamente la gente ha cominciato a ricordare. Venivamo da me dicendo: “Questo è successo anche nel mio villaggio”, “Anche nella mia città ci sono fosse comuni”. L’Human Right Council ha scoperto più di duemila cinesi uccisi in quelle circostanze.
Spesso il pubblico dell’arte contemporanea è un’elite, ma tu miri a parlare alla gente comune.
Con la gente non ho problemi. Capiscono molto bene e si interrogano: “Che vorrà dire?”. A volte gli do un testo, che è una spiegazione in forma di poema.
Un poema come introduzione all’arte contemporanea. Mi piace come idea. Certo, non dovrebbe essere compito dell’artista introdurre le persone all’arte contemporanea, è un compito che spetta all’educazione…
Io credo che tocchi alla critica. Molti critici pensano che l’arte che riguardi il sociale non sia arte. Il loro giudizio non conta per me. D’altra parte però ci sono politici che danno alla cultura l’attenzione che merita. Io sono convinto che l’arte possa migliorare la società e far cambiare le cose. Può risvegliare la coscienza delle persone. Come nelle Filippine dove il popolo ha il potere.
Com’è la situazione delle gallerie a Giacarta?
Dopo il 2000 sono nate un sacco di gallerie commerciali a Giacarta. Per fortuna, per via del mercato in espansione, adesso anche l’arte contemporanea viene acquistata. Una volta se non facevi un quadro con dei fiori, un paesaggio o una donna carina non riuscivi a vendere il tuo lavoro. Io ad esempio non riuscivo a vendere il mio lavoro, ma almeno potevo esporre.
Parlando del mercato, come si relazione un’arte impegnata come la tua con il mercato?
Nel 1998, con la caduta di Suharto, ci fu una grande crisi. Divenni molto povero perché non potevo vendere i miei lavori. Non riuscivo nemmeno a realizzare istallazioni, perché era troppo costoso, dunque non potevo fare mostre. Provai a vendere le immagini delle rivolte in corso a Giacarta.
Lavorando con l’NGO e facendo molta ricerca, mi interessai ai diritti delle donne. In quegli anni un sacco di donne cinesi vennero stuprate. Così stampai le immagini di questi episodi e vidi che le persone erano interessate a comprarle. Non erano collezionisti locali, ma giornalisti stranieri che venivano in Indonesia. A quel punto realizzai oh! Non posso crederci! Posso vendere il mio lavoro!
Cominciai a stampare su grandi tele.
Immagino sia da qui che hai cominciato a realizzare opere pittoriche.
Come graphic designer già facevo molte riproduzioni. In quegli anni avevo anche letto “L’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” di Walter Benjamin sulla riproduzione dell’opera d’arte. Così ho cominciato a stampare immagini e dipingerci sopra. Le persone mi chiedevano, ma stai facendo pittura? Io gli rispondevo di no, dipingevo solo immagini digitale che provenivano dal mio computer.
Che mi dici invece dei collezionisti? Chi sono i collezionisti in Indonesia?
Mah, sai, la maggior parte dei collezionisti in Indonesia, posso anche arrischiarmi a dire il settanta per cento dei collezionisti, compra come investimento. E dopo la crisi economica mondiale il mercato dell’arte è fermo. Anche le discussioni intorno all’arte sono immobili, perché i critici e i curatori semplicemente seguono il mercato, sono meramente degli agenti.
Se nei prossimi cinque anni non cambierà qualcosa, l’arte in Indonesia dovrà affrontare problemi seri. Sono appena tornato da Documenta, che mi ha reso più consapevole della situazione artistica generale. Troppo spesso gli artisti riproducono solo le forme a discapito del contenuto.
Quindi pensi che questo sia più un problema delle giovani generazioni di artisti? Non credi che mantengano un legame con la vostra generazione?
Il problema è che in Indonesia i giovani non conoscono la storia. Non solo quella dell’arte, dico la storia del proprio paese. Non la apprezzano. Questo è molto negativo per la nazione.
Senza un passato non è immaginabile un futuro per l’arte indonesiana
Esatto, questo è il motivo per cui voglio pubblicare un libro sul New Art Movement. Non voglio che ne scrivano solo autori indonesiani, voglio anche altri punti di vista, per dire come il New Art Movement ha influenzato tutta l’arte nel Sud Est Asiatico a quei tempi, e mostrarlo ai giovani artisti. Nel contempo a Giacarta sto collaborando con alcuni giovani gruppi di artisti per organizzare presentazioni nelle scuole d’arte.
Tra i giovani artisti a chi guardi come futuro dell’arte indonesiana?
Ce ne sono di buoni, ma sono pochi, c’è Tintin Wulia, Jompet Kuswidananto, Eko Nugroho. A Yogyakarta ci sono dei gruppi chiamati House of Natural Fiber e Tromarama. Mi piacciono molto anche Erika and Erik Pauhrizi, Pramuhendra, Ruang Rupa… tutti loro hanno guadagnato rispetto internazionalmente.
Intervista originariamente pubblicata su Art a Part of Cult(ure)