Claudia Peill e la noia della ricerca formale
Al ritorno dalla mostra in Via del Vantaggio, sede della Galleria Mara Coccia, fino a casa mia in Piazza Vittorio (non vi do l’indirizzo preciso perché non voglio i vostri bravi ad aspettarmi sotto casa dopo che avrete letto questa recensione), sono state tre le cose che mi hanno colpito assai di più che la mostra che mi ha spinto fuori dall’uscio.
In ordine: le ragazzine sotto la metro che commentavano l’appena conclusa settimana della cultura “…perché le cose gratuite fanno schifo, tipo Palazzo Barberini…” , poi un chitarrista in Piazza del Popolo che suonava ispirato Tracy Chapman, interrotto bruscamente da un’esplosione di una sigla assordante dal palco montato lì vicino, con tanto di ballerini vestiti da conigli che si lanciano sulla scena provando la coreografia, e tre una bionda malinconica simile a una giovane Marianne Faithfull seduta ai tavolini del Bar Rosati.
Tranches de vie irripetibili che sarebbe quantomeno inutile paragonare ai dipinti di Claudia Peill.
Certo, direte voi, la vita è sempre superiore all’arte, figuriamoci se non è superiore a IKEA.
Si trattava di dittici (ma anche trittici, quattro, cinque, sei…), per metà costituiti da una superficie monocroma, per metà da una fotografia virata verso il colore. Presa di per sé, la parte monocroma poteva quasi essere onesta, ma allora perché associargli fotografie di frammenti statue antiche?
La pregevolezza di queste opere ci viene svelata dal curatore Alberto Dambruoso: “La Peill è riuscita a far convivere la fotografia e la pittura, due mezzi notoriamente antitetici (ah si?) nell’intento di farli diventare una cosa sola, un’unica immagine”.
Ebbene, scusate se non sono sconvolta da tale cortocircuito estetico, scusatemi ancora se i capelli sono ancora sulla mia testa e non sul pavimento, strappati dalle mie mani deliranti per essere entrati a contatto con cotale estasiante novità.
Al vernissage, tutta gente veramente interessata alle pitture alle pareti, già figurandosele nel proprio studiolo o salotto (che figura avrebbero fatto anche nella reception di un albergo), quindi giustamente interessati a capire se veramente valga la pena di acquistarli quindi stabilire se questi quadri siano di loro gradimento o meno.
Tutti molto lontani dunque dalla “tensione scaturente dai tagli, dalle cesure, dagli interstizi di fronte a questi combine painting” e tantomeno dal ”l’abbandono incondizionato” di cui il curatore parla.
Suvvia, capisco bene che Claudia Peill espone dagli anni novanta, e che Mara Coccia è una galleria storica, riconosciuta, che ha fatto storia etc. etc., ma forse qualcuno, in questo irrigidimento nella propria credibilità, si è perso vent’anni di foto abilmente modificate al computer con programmi di scarso livello e (recentemente) messe come foto del profilo di Facebook.
Pare che ad una parte del mondo dell’arte, così preso dalle sue instancabili “ricerche”, sfugga troppo spesso il laborio di quindicenni che fanno per diletto più o meno le loro stesse cose (come ad esempio associare la fotografia di un proprio dito a un colore texturizzato).
E se si parla di un’arte il cui significato è da trovarsi esclusivamente nella propria forma, tutto ciò dovrebbe fare quantomeno pensare.
Naima Morelli
Claudia Peill “Sguardi Condivisi” – Galleria Mara Coccia – Roma