Naima Morelli

Archive
Language

Pinocchio è stato inghiottito dalla balena, ma quando si trova nella prima stanza della Galleria Ingresso Pericoloso ancora non lo sa.

Ne vede le vertebre scure, ma crede siano scale, una stairway to heaven a chiocciola la cui sommità non è possibile raggiungere, poi concentra la sua attenzione su delle strutture tubolari simili a flauti, mentre un rumore ancora lieve, vagamente minaccioso, fa da eco ai suoi passi.

Decide di chiamare tutti i suoi amici, quelli del paese del balocchi, con la chiara intenzione di far baldoria in quello spazio tutto bianco interrotto dalle misteriose istallazioni nere.
Non l’avesse mai fatto: il rumore cresce esponenzialmente quanto più Pinocchio e i suoi amici si agitano, diventa insopportabile, l’organismo si ribella, tutti i buttano a terra con le mani sulle orecchie e si dimenano ancora di più, ma il rumore non cessa anzi, aumenta ancora e sembra gridare: “Siete troppi, state fermi, questa vostra smania, andate via, via, via!”

Read More

 

Per aggettivare la Transavanguardia si è spesso scelto come vocabolo “gioia”, il recupero della gioia, qual è quella del dipingere, della figurazione, del colore, della certezza.
Della certezza?

Ognuno la pensi come vuole, ognuno è libero di chiedersi se ha senso ancora la pittura oggi, o addirittura se proprio oggi più che mai ha un senso dipingere.
A voler fare cartine tornasole delle pagine dei quotidiani, la nomina di Sgarbi come curatore del Padiglione Italia alla prossima biennale e come responsabile dell’acquisto delle opere per il Maxxi, è un segnale eloquente di un sentire probabilmente diffuso, almeno in Italia.

A volerlo invece chiedere direttamente a Sandro Chia, ci sentiremmo con ogni probabilità rispondere così come fece in un’intervista trovata su youtube, non avendolo, pover’uomo, né qui disponibile, né possedendo il suo numero di telefono.

Nell’intervista trovata in rete, Sandro ci spiega che, nell’arte come nella vita, siamo arrivati ad un punto nel quale il tempo nel senso darwinistico del termine, quest’idea del progresso, non è più applicabile, non è più vera. E’ come se il Tempo fosse finito, interrotto e questi fossero i tempi supplementari quindi, come in una partita di calcio, ogni ottenimento in questo momento sarebbe determinante.

Può darsi siano passati all’incirca una trentina d’anni dal fischio di inizio di questi supplementari, ma Sandro giustamente continua a testa alta il suo discorso cominciato ai tempi della Trasavanguardia, di cui lui, per proseguire nella metafora calcistica, era, è uno degli attaccanti.

Comunque sia, basta domande, a questo punto sono inutili.
Transavanguardia è stata e Transavanguardia sia, adesso Sandro Chia viene consacrato dalla GNAM, e di tutto ciò noialtri non possiamo che prenderne atto; la storia è stata già scritta e ci sta pure bene così.

Cominciamo dall’inizio, dal sottotitolo: “Della pittura, popolare e nobilissima arte”.

Ah.

Ma chi gli ha dato questo titolo? Achille, più in vena di poesia del solito? Sul nobilissima non c’è dubbio, sul popolare più di uno per la verità.

Per capire quanto di vero c’è in questo titolo avrei dovuto fermare uno dei muratori che al mio passaggio, come d’altronde a quello di ogni essere dalle sembianze vagamente femminili, mi ha squadrata apostrofandomi con un “A bellaaaa… ndò vai?” . L’avrei dovuto trascinare ancora tutto pieno di calce fin dentro Villa Borghese, poi farlo trottare su per i gradini della Galleria Nazionale e metterlo di fronte ai dipinti della mostra in questione. Con tutti i suoi pregiudizi dettati da una pessima se non nulla educazione artistica, con la sua probabilmente scarsa sensibilità (dedotta non dall’essere muratore ma dal suo apostrofare senza ritegno giovincelle per strada), che cosa penserebbe dunque questo individuo della pittura di Sandro Chia?

Mi risponderai Sandro, (al diavolo la professionalità) se quando mi verrai a trovare a casa un pomeriggio ti chiederò se credi in un’arte democratica?

Comunque sia, qualcosa di immediato, di sentimentale, agli animi un minimo superiori al volgo-maria-de-filippi, Sandro Chia lo dice, eccettuando derive sentimentalistiche come “Single Winged Angel”, l’angelo con una sola ala, un cuore tra le mani, in cerca di un altro angelo monoalare senza il quale spiccare il volo sarebbe impossibile, una sorta di androgino versione emo (chiedete di questo movimento giovanile giù nella vicina Piazza del Popolo a quei tipacci tristi sotto le chiese gemelle) scultura la quale forse garberebbe pure a Federico Moccia and friends.

Meno male che un altro gruppo scultoreo, le bagnanti, viene a riscattare l’artista, con il suo carico di sogno e proiezioni evocate dalle due figure che si specchiano l’una nell’altra attraverso il foro in un muro divisorio.

Ma passiamo alla pittura, mezzo espressivo principale dell’attività pittorica di Chia.

Non voglio esaltare positivamente il fatto che nei dipinti si leggano di volta in volta chiaramente Chagall, Picasso, Cezanne, De Chirico, Savinio, Carrà, Picabia etc., né ho intenzione di criticarlo per questo (se non altro perché poi non mi verrebbe più a trovare a casa un pomeriggio come gli sto chiedendo dall’inizio di questo articolo).

Evidentemente Chagall, Picasso, Cezanne, De Chirico, Savinio, Carrà, Picabia  sono il suo modo. Il suo mondo.

A lui sono chiaramente piaciuti di volta in volta Chagall, Picasso, Cezanne, De Chirico, Savinio, Carrà, Picabia, e ha deciso, forse nemmeno volontariamente, di attingere a Chagall, Picasso, Cezanne, De Chirico, Savinio, Carrà, Picabia. Non voglio chiamarlo “ecletticità dello stile”, né osare accusarlo di “mancanza di uno stile personale”. E’ un dato di fatto, ma questo modo di procedere, capirete, può creare capolavori tanto quanto quadri inutili. Toccherebbe perciò disquisire di ogni dipinto come un discorso a sé, in mancanza di un’unità sia stilistica che contenutistica se non un certo interesse per la figura umana e i suoi stati d’animo.

Se è vero che ce n’è per tutti i gusti, ecco allora una personale selezione gourmand: il meraviglioso “Fire Game”, dove il colore ancora vivo e materico sulla tela grezza sembra fiammeggiare con impeto, “La cucina di Dioniso”, un’esplosione di bellezza ed energia pura, la vera gioia del colore, e “Salve a te vecchio Oceano”, tre balene in scala simili a sardine in un cartoccio, adagiate su una tela di cui si legge ancora la trama, ricordando quasi una rete da pesca.

C’è dunque gioia nel percorso pittorico di Sandro Chia, “liberato dalla schiavitù della novità”, come si dice sempre dei membri dell’allegra compagnia della transavanguardia? Lo chiedo al muratore di cui sopra: “Avoja”

C’è qualcosa che importi di più di questo?

Naima Morelli

Sandro Chia. Della Pittura, popolare e nobilissima arte.
Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma
16/12/2009
28/02/2010

Read More

 

 

Accademia Tedesca – Borsisti 2009

Ancora una volta L’Accademia Tedesca di Villa Massimo diventa protagonista in ambito artistico-culturale, barrando la casella 26 marzo sul fitto calendario di eventi che ha sempre organizzando fin dalla sua fondazione, e per i quali è particolarmente attiva negli ultimi tempi, proponendo circa una trentina di eventi all’anno, tra mostre, concerti e serate di lettura.

Quest’anno come di consueto, data ventisei di marzo, è stato presentato dei borsisti dell’Accademia Tedesca, una rosa di nove artisti destinati a suscitare grande interesse, molti già attivi nel tessuto artistico romano con proprie personali e tutti ampiamente riconosciuti all‘estero, non solo in Germania.
Questi “Sipendiaten”, tutti sulla quarantina, sono artisti i quali, con romantici stralci nella migliore tradizione del “Gran Tour”, sono stati ritenuti meritevoli in base alle loro eccezionali capacità nel rispettivo campo artistico di appartenenza, non necessariamente figurativo ma anche letterario, musicale, architettonico, in breve creativo.
Sono loro stessi a decantare la capitale italiana come luogo ideale dove trovare ispirazione per la loro produzione, liberi da problemi economici di sorta.

Read More

Luce riflessa, luce artificiale, luce che svela, luce che permette la vita.

Negli spazi della Galleria Locarn O’ Neill a prima vista ci sarebbe da confrontarsi con una scala di grigi 8 bit, che sorpresa allora quando lo spettro luminoso, proprio come una presenza spiritica, appare fugacemente in tutta la sua fantasmagoria.

Si sa che, fin dagli anni novanta, il gallese Wyn Evans, ha cominciato ad interessarsi a quelli che sarebbero diventati gli elementi fondanti della sua ricerca , ovvero un’analisi della percezione, della comunicazione e del linguaggio. Una delle sue prime intuizioni è stata quella delle “sculture di luce”, lampadari o filamenti luminosi, responsabili di più di una scotoma certo, ma anche di grandi coinvolgimenti emotivi, senza accantonare il lato concettuale, seppur anch’esso un po’ romantico (i comandi trasmessi ai computer che regolavano l’accensione random delle illuminazioni, erano basati su traduzioni di segnali morse ricavati dai testi di poeti tenuti in grande considerazione dall’artista, come William Blake, Guy Debord, Maurice Marleau-Ponty).

Lo scorso aprile abbiamo visto una di queste sculture dal titolo “I=N=V=O=C=A=T=I=O=N (I call your image to mind)” al Palazzo della Triennale di Milano, dove l’installazione composta di luci al neon era sospesa ad oltre6 metridi altezza.

I “New Works” invece, questi nuovi lavori di Cerith, non hanno un legame ben preciso tra di loro, si possono vivere come lente scoperte, a patto che il fruitore sappia stare al gioco, diventando un attento esploratore.

La scelta di imprimere argento su argento riproduzioni di massa, in questo caso addirittura fotografie giapponesi prese da riviste anni settanta fa si che, viste frontalmente come si è solitamente abituati, esse siano indecifrabili.

Il fascino di questa operazione sta nell’intuizione da parte di chi guarda che non si tratta di una superficie muta, ma che contiene un segreto da svelare, una verità che si intravede a bagliori, come delle gambe femminili sotto una gonna di veli sovrapposti.

Solamente spostandosi lateralmente infatti, solamente in un punto preciso per ogni lastra, apparirà chiara l’immagine. E la pudicizia nel celare queste fotografie rappresentanti scene di erotismo omosessuale da giornaletto porno con qualche pretesa, crea una sorta di stupore che porta ad un’inevitabile riflessione;

Si tratta di un semplice straniamento seducente, o forse il compito dell’artista è recuperare con la delicatezza della poesia la crudezza dell’immagine mainstream, riabilitare l’erotismo, di qualunque tipo esso si tratti, in una dimensione che non sia quella volgare e spiattellata persino in televisione nelle fasce orarie protette?

L’idea che sia in ballo qualcosa di profondo emerge dalla scritta a neon di fronte alla parete “Soffro per voi, ma come fate?”. Facile che salgano alla mente gli incisi dell’”Edipo Re” di Pasolini, al quale non a caso lo stesso Cerith nel novantotto ha dedicato un lavoro, fuochi d’artificio sulla spiaggia di Ostia, selezionando stralci di dialogo proprio dalla pellicola.

E’ con un senso di fatalità nell’animo quindi, che rivolgendosi a destra si incontra l’opera dal significativo titolo “Untitled (Perfect Lovers +1)” , tre orologi da parete perfettamente sincronizzati, i quali richiamano una visione contemporaneamente metafisica e futuristica dell’amore, del tempo del cuore, del tempo attuale delle relazioni nella vita moderna, in un triangolo che non cessa di comunicare l’inquietudine della precisione e del calcolo.

Non è finita. Cerith modifica l’ambiente della galleria con delle colonne specchianti, il connubio perfetto tra identità e luce, chiamando in causa una volta in più quest’ultima a definire le lettere tagliate nella carta, in un progetto di comunicazione che coinvolge altre opere realizzate stavolta con l’inchiostro nero.

E infine luce che dona la vita, come nell’opera che vede issate su due di tre colonne a specchio un cactus e un’orchidea, nutrite da rimbalzi luminosi.

Ancora tre.

E ancora viene da specchiarsi e riflettere su sé stessi come sotto uno spotlight.

 

Naima Morelli

 

30 September h 6.30 p.m.

Galleria Lorcan O’Neill
via Orti D’Alibert, 1e Roma

(pubblicato su Teknemedia, ottobre 2009)

Read More

1971, Milano. 1970 Tokio.

Un anno di differenza per due artisti, la prima italiana, il secondo, nonostante il luogo di nascita, tedeschissimo. Linguaggi diversi, ma poi nemmeno tanto, in quanto entrambi influenzati fortemente dall’estetica pop e accomunati da una regola portante per tutto il loro lavoro: la provocazione.

E’ nell’ambito della rassegna “Soltanto un quadro al massimo”, ideata da Ludovico Pratesi e dal direttore dell’Accademia Tedesca di Villa Massimo dr. Joachim Bluher che il confronto tra i due artisti di fa esplicito. Il ciclo espositivo, giunto oramai alla decima edizione, fa dialogare, ma anche amichevolmente scontrare, due opere appartenenti rispettivamente ad un’artista italiano e ad uno tedesco. 

Read More

 

“Allora?”

Il guardiano dell’Uccelliera di Villa Borghese rivolge la stessa domanda a tutti i visitatori che gli sfilano davanti verso l’uscita, sia a quelli che davanti al Ratto di Proserpina dentro l’adiacente Galleria Borghese hanno detto: “Certo stò… Bernini, sta scritto Bernini, non leggo bene… sapeva scolpire abbastanza bene veh?” “Si si… ma Caravaggio è il migliore comunque qua dentro!”, sia ai turisti che non hanno voglia di perdersi in lunghe spiegazioni madrelingua, sia ai colti amanti dell’arte venuti appositamente per visionare il lavoro di Hans Op De Beeck.
Trattasi della terza edizione di Committenze Contemporanee, progetto che vede in sinergia la Galleria Borghese, il MAXXI e l’Unicredit Group, al fine di promuovere l’arte contemporanea e spingerla a creare opere nuove e originali.

La domanda del custode dell’Uccelliera invece, lui che ha accettato questo lavoro aspettandosi per la verità di aver a che fare con variopinti pennuti, è chiara: “Cosa diamine c’entra Hans Op de Beeck con il Correggio?”
Essì che bisogna farsela questa domanda, dal momento che il titolo della mostra è proprio “Hans Op de Beeck – In silenziosa conversazione con Correggio”

Read More

 

Alcune volte è difficile parlare di un quadro, o anche solo di uno schizzo incompleto, specialmente se l’autore non è il ritrattista di Piazza Navona ma Francis Bacon, quindi uno degli ultimi agenti tellurici della pittura, magnitudo 8 sulla scala Richter.
Volendo citare gli autorevoli anonimi dei baci perugina, o chissà quali pubblicitari malpagati al soldo di qualche prodotto da vendere alle masse emotive: “Le parole non bastano a descrivere un’emozione”

Diciamo subito invece che i movimenti della performance di Forsythe sono evocativi già di per sè, anche senza riferimenti di sorta; la gabbia, il prigioniero e il ribelle.
Se non ci fosse stato il disegno di Bacon a veicolare l’interpretazione, avremmo tutti potuto interpretare la coreografia sul fondo bianco come La Ricerca.
La Ricerca continua e spasmodica dell’artista del filone da esplorare, di un senso da trovare, una linea da inseguire. Questo divincolarsi nel mondo e contorcersi alla ricerca della verità, acchiapparla solo per un attimo, fuori dal limitato spazio vitale assegnatogli, e poi persa ancora, e ancora inseguita. Su uno, anzi tre, visti da tre punti di vista diversi, maxischermi, invece che al volante di un’automobile a cercare “la cosa” come dice Dean Moriarty in “Sulla strada”.

Ma stavolta ancora prima del disegno (trattasi di un autoritratto di Bacon , così come indicato sulla targhetta, o del ritratto incompleto del suo amante George Dyer), riprodotto in una teca alle spalle dei tre schermi, è il titolo a fungere da chiave interpretativa.
L’opera si chiama: “Retranslation”.

Vi siete mai innamorati tanto di qualche opera d’arte tanto da averla voluta fare voi?
Probabilmente, se sei un’artista, non puoi limitarti a guardarla, ti sentirai sempre separato da tanta bellezza, o se non è bellezza è di certo qualcosa di conturbantemente bello, e ti senti in dovere di farne qualcosa – copiarlo d’altronde ti sembrerebbe inutile, sterile. E allora, con il vocabolario del proprio linguaggio artistico, lo si traduce. Tradotto nel proprio universo poetico, nel proprio tempo; mettete via quel Garzanti, stavolta ci affideremo all’ultima edizione del Peter Welz – William Forsythe.
Compito in classe alla Galleria D’arte Moderna di Roma, oggi si traduce Bacon.

Due parole sui traduttori, in combutta dal 2004; il tedesco Peter Welz è uno scultore e video artista, concentrato sul corpo e sul suo movimento (da vedere anche la personale dedicatagli dalla Galleria Fumagalli di Bergamo, dal 10 ottobre al 30 novembre), l’americano William Forsythe è invece uno dei più famosi coreografi contemporanei. Questa loro opera, esposta alla GNAM dal 3 ottobre, Giornata del Contemporaneo, è già transitata nel 2006 nelle stanze del Louvre di Parigi dove ha ricevuto un’entusiasmante accoglienza.

Trattasi di tre schermi di tre metri e mezzo per cinque, come grandi tele, sulle quali, inquadrato da diverse angolazioni, si agita il performer Forsythe, munito di scarpe con la punta in mine di piombo tali da lasciare tracce dei propri movimenti sul pavimento bianco. Gli itinerari tracciati da Forsythe riprendono perfettamente il dinamismo delle linee nello schizzo di Bacon, in una visione estremamente coinvolgente.
Una ritraduzione che mescolando sinesteticamente danza, pittura e video attende perfettamente all’idea di arte espressa da Bacon: “Nessuna illustrazione della realtà, ma creare immagini che siano un concentrato della realtà e una stenografia della sensazione”
E al diavolo gli anonimi dei baci perugina.

Naima Morelli

 

Pubblicato su Teknemedia 2009

 

PETER WELZ / WILLIAM FORSYTHE
Retranslation|
Final Unfinished Portrait (Francis Bacon)|figure inscribing a figure
3/25 ottobre 2009
Galleria nazionale d’arte moderna
Viale delle Belle Arti, 131

 

Read More

Un autore di fumetti ha vita più semplice di un regista.
La sua matita può ingaggiare immediatamente come protagonista, senza bisogno di telefonate e belle parole di persuasione, l’attore prescelto, vedi Dylan Dog- Rupert Everett, Jolanda d’Almaviva- Senta Berger, Valentina- Louise Brooks e tanti altri. Inoltre può ricreare con il solo costo di un po’ di mina di matita gli effetti speciali più dispendiosi e, cosa più importante, se ne ha le capacità necessarie, può realizzare esattamente quello che ha in mente, senza dover contare su altre persone che, in modo più o meno considerevole, influiscono sul risultato finale.
Insomma, un mucchio di vantaggi se non fosse per una deficienza fondamentale: la musica.

E’ la dura realtà; niente colonne sonore per i fumetti, nonostante, da Julia a Gea fino ad arrivare a manga come Black Lagoon, i personaggi canticchiano testi di canzoni che lo sceneggiatore provvede a citare al margine della vignetta. Un’escamotage ingegnosa, chi lo nega, ma di sicuro non è la stessa cosa che sentire il pezzo con le proprie orecchie. Oltretutto non sempre il lettore conosce brano!
E allora com’è che il rapporto tra musica e fumetto si fa sempre più stretto?

Read More

La trinità si è incrinata, e quando si parla di trinità in certi ambienti non si intende Padre Figlio e Spirito Santo, non si intendono nemmeno improbabili film con Bud Spencer e Terence Hill, diamine! Si intende l’essenza, che poi potete chiamarlo mito come potete chiamarlo clichè, ma sono solo fatti vostri; Sesso Droga & Rock’n Roll è come Pompeo, Crasso & Cesare, come Marco, Lepido & Ottaviano!

E’ incontestabile. I triumvirati si sciolgono , e allora perché dovrebbe essere diverso per la droga (che fa male più di Crasso), il sesso (che deconcentra più di Pompeo) e il rock’n roll (vale a dire Cesare, il più importante). Poi Cesare venne pugnalato ventitrè volte, e pure dal suo figlio adottivo, ma per scaramanzia non spingiamoci troppo in là con le metafore.

A rendere le droghe sempre à la page ci sono gli onnipresenti alfieri della perdizione Doherty e Winehouse, che con le loro scorribande suppliscono alle mancate trasgressioni di tutte le altre band salutiste, vegetariane, macrobiotiche.
Droga a posto allora, per il momento. E al sesso chi ci pensa?

Read More

Maledetto.
Maledetto è l’aggettivo che svela il collegamento tra rock’n roll e la boheme.
Già la beat generation aveva attinto a piene mani dall’opera dei maudits e dopo di loro i poeti-rockstar hanno guardato ad entrambi; eppure questa roba, queste immagini, questa attitudine, è tutta ancora valida, sempre bollente, mai totalmente innocua.
C’è poco da fare; nessun accademico, pur inserendolo nelle antologie scolastiche, riuscirà mai a ripulire la reputazione di Arthur Rimbaud, che era un ribelle, un fuggitivo, uno scapestrato, in breve una canaglia, come lo definisce già nel titolo il saggio di Benjamin Fondane (recentemente tradotto da Le Nubi).
Il fatto era che il giovane bohemien odiava la mentalità chiusa e provinciale dei suoi compaesani di Charville, odiava la sua vita grigia, si sentiva oppresso dalla madre, dalla sua eccessiva preoccupazione per la rispettabilità, dalla rigida morale, dalla religione vissuta in maniera soffocante, quindi cos’altro poteva fare, se non fuggire? Fuggì allora, ma non a casa della nonna.
Prese il treno per Parigi.
Fu proprio nell’intenso periodo parigino che scrisse la famosa “Lettera del veggente” dove diceva, in breve, che per pervenire all’ignoto bisognava sregolare i sensi mediante l’uso di droghe, che poi è quello che teorizzerà anche Aldous Huxley prendendo il titolo del suo libro da un famoso verso di William Blake, un altro grande poeta pazzo ispiratore del rock.
Già, “Le porte della percezione”. D’altronde lo sappiamo tutti, gli anni di Huxley erano i ’60 quando rigetto dei valori borghesi e l’abbandono dalla casa parentale erano diventati qualcosa di più della fuga isolata di un ragazzino francese dal ciuffo spettinato.

Ed ecco allora Rimbaud scrivere in una lettera indirizzata al suo professore di Francese, quasi a dare voce a tutti i futuri sessantottini,:“Lei non è più insegnante per me. Io Le dono questo: della satira, come direbbe Lei? Della poesia?È la fantasia, sempre. – Ma, La scongiuro, non sottolinei né con la matita, né troppo con il pensiero…”.

Read More

A guardarlo l’impressione è quella di assistere ad un solenne incontro di tre meravigliose balene argentate ma a quanto pare l’Auditorium di Renzo Piano è come le nuvole: ognuno lo interpreta come vuole, secondo la sua ispirazione del momento.
C’è chi chiama le tre sale scarabei, chi le paragona ad armadilli e diamine! le ho sentite anche paragonate a dei panini avvolti nella carta argentata, ma ufficialmente si chiamano Santa Cecilia, Sinopoli e Petrassi.

In realtà l’Auditorium nasce per l’esigenza di colmare una frattura urbana tra la collina di Parioli e la pianura fluviale del Tevere dove era stato costruito il villaggio olimpico a ridosso del quartiere Flaminio. Nel ’94 il comune di Roma bandisce una gara internazionale, e il progetto vincitore risulterà quello di Renzo Piano, che di concorsi ne ha vinti parecchi (basti pensare che in questo modo ha avuto occasione di realizzare il famosissimo Beaubourg, in collaborazione con Rogers).

Di Piano si è detto che perseguisse “la versatilità poetica delle forme e delle idee”. A guardare la sua opera omnia, almeno fino ad adesso, compiuti da poco 70 anni non dà accenni di voler smettere, è difficile dargli torto. C’è chi lo accusa di non avere uno stile riconoscibile, un complimento per uno per il quale lo stile corrisponde ad una gabbia, le cui sbarre sono i vincoli ad elementi architettonici sempre presenti nell’opera di un architetto; la sfida è attingere da tutti gli stimoli possibili per cambiare ogni volta. Più che i detrattori quindi, sono alcuni estimatori a fargli torto, elevandolo a archistar, una rockstar della progettazione, definizione che a Piano rifiuta. Piuttosto bisogna riconoscere che nel suo Auditorium Parco della Musica di rockstar vere e proprie con tanto di chitarra dalla sua inaugurazione nel 2002 ne sono passate parecchie, visto che il comune di Roma organizza continuamente concerti e spettacoli in questo centro multifunzionale.

Read More

In qualche caso si è trattato di affrontare all’andata un mare burrascoso in aliscafo e un altrettanto traumatico ritorno in circumvesuviana, ma i pur strazianti sussulti, cigolii e stridii di un treno che sembra sempre essere sul filo del deragliamento, non si sono rivelati bastevoli a dissolvere nella tensione la dolce dimensione-illusione anticoromana che poi era la meta del viaggio.
Il  titolo scelto per la mostra ospitata dal Museo Archeologico di Napoli è “Alma Tadema e la nostalgia dell’antico”, una spettacolare rassegna di artisti di fine ‘800 capaci di far rivivere in pennellate vita quotidiana e antichi fasti di un mondo del quale non rimangono che rovine e le testimonianze pompeiane. Questi artisti lavoravano organizzandosi dei grossi archivi fotografici di pezzi originali, molti dei quali sono attualmente conservati all’interno dello stesso Museo Archeologico che, con un operazione di grande interesse, ha deciso di esporli a fianco dei quadri che li ritraggono.
L’esposizione è intitolata al pittore olandese adottato dell’Inghilterra Sir Lawrence Alma Tadema, artista fino ad ora ingiustamente poco considerato in Italia. In realtà, girando per le sei sezioni allestite si fatica a ritrovare i quattordici quadri promessi.
C’è da dire però quei pochi pezzi esposti, probabilmente neanche i più rilevanti, sono spettacolari.

Dalle grandi tele impeccabili nell’accostamento cromatico, descrittive senza perderne in poesia, precise e evocative, ai piccoli acquerelli e oli (uno su tutti, “la scala”, tavola oblunga e stretta in una cornice dorata, un raffinato oggetto-idolo  per cui perdere la testa) tutto in Alma Tadema ti dà l’impressione di affacciarti alla finestra della storia.
Chi ha avuto modo di poter ammirare i suoi quadri solo in riproduzioni certo non rimarrà deluso. D’altronde fino ad ora un Alma Tadema così non si era visto in Italia, e chissà quando accadrà ancora…

Read More