Naima Morelli

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“Don’t look at the pictures” could be the subtitles of the Demian’s Gagosian exhibition.

The antefact is that the January 12, will be Damien’s shows in the Gagosian Gallery worldwide. “Twenty five years of Spot Paintings” it’s the official title, and seems to be very serious, even knowing the brat who Damien is.
No corpses, no putrefaction, no flies… it could be a relaxing exhibition.

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Quanta ironia nel collocare una mostra dal titolo “Paura dell’Altro” proprio in una chiesa, quantunque sconsacrata: “Non ti dico che casino conla Sovraintendenzaper collocare la scimmia di Ragalzi sull’altare”, mi dice avviluppato in una mantella beige Carlo Pratis della Galleria Delloro (galleria tra i quali artisti figurano Paolo Grassino e, appunto, Sergio Ragalzi).
Ma andiamo ai fatti e bando all’anticlericalismo, che pure quella è una moda, e d’altronde il Papa ha pure ammesso che nelle Crociate c’era un piccolo errorino.

Si parlava di scimmie.
Allora, ce l’avete presente quando nel Libro della Giugla c’è quel tempio abbandonato, occupato (nel senso centrocialesco del termine) da oranghi?
Ecco, prendete quell’emozione che, sono certa, avrete senz’altro provato con i vostri nipotini o figlioletti sulle gambe, o magari proprio voi stessi in braccio a papino e mammina.
Prendete quell’emozione e intingetela in quelle notti dove, un po’ più grandicelli, non riuscivate a prendere sonno per paura della morte, del nulla: avrete Ragalzi con sua serie delle scimmie.

Può darsi non vi basti. Può darsi sentiate la necessità di contestualizzare la cosa.
Bene.

Immaginate di essere nati a Bassano del Grappa, e di avere nel cassetto un fazzoletto della Lega Nord, con vostra moglie sprezzante che lo usa per pulire il vaso da notte sotto il giaciglio coniugale. La vostra casa, nonostante l’opposizione della consorte dotata di un minimo di buon gusto, tracima di cianfrusaglie padane, suppellettili di legno, centrotavola rustici e coltellini svizzeri. L’arredamento in effetti sembra voler soffocare un certo horror vacui ma, ebbene si, tirando via il sipario è proprio questo che rimane: il Grande Vuoto.

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Art Monthly Australia published my review of  Gao Brothers performance in Piazza del Popolo, Rome with the title “Gao Brothers: The Utopia of Hugging for 20 Minutes”.
Photos of Luigi Ielluzzo.

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Ecco cosa vedete, nascosti dietro al vetro a specchio.
In una stanza metafisica, bianca come uno spazio espositivo, io e l’artista Valentina De’ Mathà ci sediamo ad un tavolo candido, sul quale è adagiato un niveo foglio.
Io scrivo una domanda, e in silenzio passo il foglio a Valentina. Lei scrive la risposta, piega la parte superiore della carta in modo che non sia leggibile e mi ripassa il foglio.
Alla ventesima domanda Valentina si alza ed esce. Anche io faccio lo stesso, ma prima apro il foglio e ve lo attacco, dal verso leggibile, al vetro specchio.

C’è scritto questo:

Cosa c’è sotto?

Il caso che non esiste.

Perché vivi in Svizzera?

All’inizio perché ho improvvisamente sentito la necessità di staccarmi dall’Italia e soprattutto da Roma, verso la quale avevo un attaccamento morboso. Quindi, al culmine di questa morbosità, ho deciso di tagliare il cordone ombelicale e fuggire via senza guardarmi indietro, ma soprattutto perché mi sono resa conto, con estrema lucidità e amarezza, che l’ Italia non sarebbe stata in grado di darmi le opportunità professionali, il sostegno e i confronti di cui avevo bisogno, e che avrei trovato solo viaggiando.

Non era mio obiettivo trasferirmi in Svizzera, anzi, ma dieci giorni prima di partire verso Berlino ho conosciuto Roger Weiss, fotografo svizzero, colui che poi è diventato mio marito.

Ho visto artisti che sulla carta d’identità hanno scritto “artigiano”, tu invece?

Ho solo il passaporto.

L’hai mai persa la carta d’identità?

Mai.

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Tano D’Amico lancia al registratore appoggiato sul tavolino uno sguardo lungo, obliquo, minaccioso, di assoluta disapprovazione. E si che è stato lui a dire che la macchina fotografica è stupida, ragionevolmente non considererà un registratore tanto più intelligente: “Preferisco che tu scriva quello che ti rimane impresso.”

Siamo seduti ad un bar vicino l’Accademia di Belle Arti di Roma, in Via di Ripetta, e già qualche studente si è seduto al tavolo con noi, accolto con allegria da Tano.
C’è un’empatia naturale e reciproca tra i ragazzi e il “loro” fotoreporter, quello che gli ha fornito le immagini mitologiche delle rivolte studentesche, dagli anni ’70 fino ad oggi, oltre le banalizzazioni “pornografiche”, come le definisce lo stesso D’Amico, che i media erogano a getto continuo: “Sono immagini brutte, che non aiutano a vivere, bloccano la memoria, spesso non aiutano nemmeno ad esorcizzare il presente. Sono immagini fatti con gli occhi del boia, in una sorta di compiacimento della crudeltà, con l’alibi della documentazione. In queste immagini il carnefice ha un quoziente di umanità maggiore della vittima e sono indispensabili per chi comanda.

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La scimmia, animale ancestrale, sommo enigma più volte rappresentato dallo stesso Sergio Ragalzi (un grosso dipinto rappresentante il primate misterioso occupava lo stand della Galleria Delloro alla recente Roma Road to Contemporary Art), deforma anche il volto di queste venti sfingi in via del Paradiso.

Non più umani con il corpo felino, ma maestose sagome con il volto di scimmia, stagliate contro i colori di un deserto puramente mentale, creato apposta per un Indiana Jones o un Corto Maltese, o per qualsiasi altro Edipo viaggiatore dei nostri tempi o di quelli futuri, pronto a sedersi di fronte a lei, silohuette contro silohuette, lasciandosi porre questi indovinello.
Eppure, come il boa del piccolo principe, le sfingi di Ragalzi hanno inghiottito qualcosa che non gli appartiene, fino a diventare un tutt’uno con essa, in un rapporto di precisa identità.
E’ una bomba, il missile intelligente e distruttivo, quell’orrore prodigioso dall’intelligenza matematica. Ma cosa potrebbe chiedere il tremendo siluro alle sue vittime?

C’è sempre un quoziente di enigma in queste guerre senza senso, per noialtri a cui non interessa più di tanto il petrolio, se non al momento di fare il pieno. Petrolio del quale pure queste sfingi dal profilo scimmiesco paiono infradiciate come gabbiani nella marea nera.
Sfingi che sono macchie colpevoli, così come è oscura la colpa di Edipo. Scenari da Arabia Saudita, poi Egitto, ma anche Libia; questi dipinti sono un grido che emettono in coro. Gridano: “Inevitabile!”

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Per due giorni all’anno Eduardo De Martino, riprende i pennelli, li intinge nell’olio di lino, misto a due gocce di essiccante per essere sicuro di rispettare i tempi, e comincia a dipingere.

E’ ormai anziano, centenario, il suo animo è pacificato, basta incrociatori, corazzate, corvette e fregate, stavolta il suo è un quadro “in fieri”, dove con una campitura cerulea crea il cielo, e tuffandosi nel turchese lo distacca dal mare. Poi pennellate leggere di bianco titanio, tic tic, come in un minuetto, e si materializzano delle piccole vele, nel picchiettare una virgola rossa, è Fara, e questo è il Trofeo De Martino, un dipinto che dura circa 4 ore, nasce e scompare in due giorni, ma rimane molto più a lungo nella memoria emotiva dei suoi partecipanti e di coloro che, affacciati dalla costa alta e rocciosa, ne osservano la leggera poesia.

Le imbarcazioni dipinte da De Martino, si trovano nei musei e nelle collezioni di tutto il mondo, coerentemente alla vita di un uomo che ha percorso come decoratissimo ufficiale di marina e come ispiratissimo pittore le rotte che da Meta di Sorrento conducono all’Inghilterra e al Sudamerica.

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L’arte di Ragalzi sono le impressioni tre secondi e mezzo dopo essersi svegliati in seguito ad una caduta dal letto.

Si dal caso che la sera dell’inaugurazione dal letto era caduta una bella folla, e la formula della Galleria Delloro, che potrebbero inserire a fianco al loro logo tipo barretta kinder +latte –cacao, è invece +vivacità –biondone da vernissage. L’età media infatti attorno a questa galleria si abbassa, nonostante gli artisti proposti non sono propriamente dei pischelletti, ma chissà, saranno i galleristi che parlano del lavoro di Ragalzi come se si trattasse dell’ultimo album della loro rockstar preferita (e in effetti nelle opere di Sergio qualche accordo di un certo tipo di metal risuona limpido), saranno strane sostanze dai poteri persuasivi disciolte nel soave vino, sarà insomma qualcosa di significativo che porta sangue giovane nell’angolo di Piazza Dell’Oro, dove si trova appunto l’omonima galleria.

Do di gomito a una sconosciuta di fronte alle “opere foglia” alla parete, e lei come azionata dà il suo parere con voce spiritata “Sergio… ha questo linguaggio archetipale… perché è difficile sa… parlare in maniera così chiara, così chiara” e qui gli occhi cominciano a luccicarle, forse a riempirsi di lacrime? Non mi è dato a sapere perché abbassa immediatamente lo sguardo come a controllarsi qualcosa sotto la punta delle appuntite scarpe “… è molto, molto difficile parlare di archetipi senza cadere… nel banale…nel già visto insomma…” “Muove qualcosa dentro” azzardo io. Lei annuisce in silenzio, mormorando qualcosa di incomprensibile.

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Dopo un interrogatorio durato un’ora e mezza Crewdson non ha sputato il rospo, non ha cantato intendo, e con queste parole voglio dire che non si è lasciato andare a quelle meravigliose rivelazioni che avrebbero sgomentato la platea, ancora più del suo repentino cambiamento di estetica in quest’ultima mostra “Sanctuary”, da Gagosien.

Un po’ una tortura, sebbene sopportata in traduzione simultanea sulle comode poltrone della sala conferenze del MAXXI, il percepire questo sottinteso, questi “motivi personali” colpevoli delle svolta, che il critico del New York Times Michael Kimmelman, quanto mai speranzoso, ha cercato durante tutto il tempo di tirare fuori dalla bocca del reticente artista.

Un breve resoconto del fattaccio: Gregory, quello delle fotografie cinematografiche, quello di “Beneath the Roses”, quello che insomma quando guardate le sue fotografie a David Linch fischiano le orecchie, ebbene proprio lui decide di venire nella Città Eterna.

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Mentre voi state seduti davanti ai vostri computer a leggere questa recensione in questa specie di iperuranio che è internet, alla Galleria Monitor due artisti piuttosto diversi tra di loro si incontrano in dei lavori che implicano una riflessione sul concetto di spazio. I loro nomi, Francesco Arena e Nina Beier.
Parafrasando un ridicolo manifesto politico apparso sui muri capitolini: “Nina Beir, chi è costei?”

Insomma, c’eravate o no al MACRO il 12 dicembre, allorquando Nina insieme alla collega Marie Lund, spalleggiate dalla Nomace Foundation, hanno eseguito la performance “The Complete Woks”?
Beh, nemmeno io c’ero, e allora? Si, mi è dispiaciuto, ma possiamo rincuorarci sapendo che la ripeteranno il 23 gennaio e il 6 febbraio.

Casualità ha voluto che la suddetta performance fosse in contemporanea con il vernissage di questa mostra di cui vorreste la recensione, costringendo presumibilmente la povera Nina-scusatemi-un attimo-cari-vado-un-attimo- ad-incipriarmi-il-naso a cambi repentini di abito nei bagni, sgusciamenti fuori dalla finestra, corsa al motorino parcheggiato in Via Reggio Emilia e obbligandola a farsi tutta un’impennata fino a via Sforza Cesarini, insomma, un casino totale.

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Vi siete mai sentiti secolarizzati?

Rifletteteci bene, quando per voi suona la sveglia, magari dal cellulare, non è mai un rito, è sempre un fastidio, e QUINDI?
Quindi nella vostra agenda giornaliera sopprimete il sacro, mentre in vacanza Dio è morto nei miti dell’estate e va bene così, ma con tutte le parole del caso, perché una cosa è citare Guccini, un’altra è citare quel ridicolo di Vasco Rossi.

Oppure no, sono partita con le accuse troppo frettolosamente, per esempio adesso mi pare già di vedervi mentre scendete nella cripta di una chiesa, magari proprio dove ci sono le spoglie del vostro santo preferito, visto che avrete pure voi una top ten dei santi e una collezione di santini in un album  come le figurine panini, vi vedo insomma con i vostri occhiettini che sbrilluccicano riflessi nel metallo dorato degli ex voto appesi alla parete; gambette, criaturielli, cuoricini, e persino qualche squisito quadrettino di barche e tempeste per chi come me viene da un posto di mare.

O magari le vecchie chiese non vi interessano, eppure passeggiando per le vie della vostra città avrete sicuramente visto qualche colorato quanto inaspettato simulacro alla memoria di qualche sventurato deceduto in un punto preciso della strada o della metro; tutto ciò che se siete secolarizzati è solo triste, se non lo siete del tutto è si triste, ma anche molto affascinante.
Sto parlando della religione del popolo, sempre così selvaggia e pagana in tutto il mondo, quel sacro così goffo e così vero che pretende di occupare il suo spazio fisico, tanto da trovarcelo improvvisamente davanti agli occhi quando meno ce lo aspettiamo.

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“Ed anche la roba era fatta per lui, che pareva ci avesse la calamita, perché la roba vuol stare con chi sa tenerla, e non la sciupa”.

E’ effettivamente un accumulo, paragonabile a quello del Mazzarò di Verga, che il collettivo siciliano Laboratorio Saccardi, duttile e poliedrico come sempre nella scelta dei mezzi espressivi, mette in scena alla galleria Z20.

Questa è la situazione: al centro della galleria c’è un carretto con tanto di tavuàzzi, fonnu di càscia, masciddàari e puttèddu, decorato e dipinto come i tipici carretti siciliani che univano l’ovvia funzionalità di trasporto ad una didattica; vi erano rappresentati, a beneficio della popolazione analfabeta, eroi cavallereschi e rappresentazioni mitologiche in tinte molto vivaci.

La differenza in questo caso, oltre ad decromatizzazione, è che l’iconografia si riferisce alla cronaca recente.

Bisogna quindi leggerlo questo carretto, decifrarlo, ma non si tratta di un alfabeto astruso, è anzi semplice come un fiaba popolare, un romanzo dove siccome nessuno sa dire con certezza cosa sia successo a quell’aereo nella strage di Ustica, si risolve l’enigma immaginando il veivolo nelle fauci di una specie di Godzilla.

Non si tratta di dissacrazione, tutt’altro, v’è di quella serietà fantasiosa e magica che mettono i bambini nei loro giochi.

Leone, artista del collettivo, conferma la mia sensazione “C’è qualcosa di magico in questo carretto”, mostrandomi sull’asse posteriore, non a caso la parte più delicata della struttura di legno, un palindromo benaugurante medioevale, una sorta di misterioso incantesimo: Sator arepo tenet opera rotas.

Si tratta di una magia popolare senza dubbio, dove l’opera d’arte viene spogliata della sua intoccabilità per piombare sul selciato polveroso e vivo, praticamente diventando come quelle statue nelle chiese fatte per essere toccate ed erose dalle lacrime e dalle mani sudate dei fedeli, anziché essere abbronzate dalla luce dei flash degli intenditori di statuaria religiosa.

Spiega Leone:“Le ruote creavano un rumore ritmico che, unitamente a quello degli zoccoli dell’animale da traino, forniva ai carrettieri la base per una melodia da intonare durante il viaggio. Abbiamo deciso di lasciarle così, usurate, dopo aver fatto sfilare il carretto trainato da una mula per le strade di Terrassina, dove abbiamo coinvolto anche la popolazione.

Insomma “U carriettu avi a sunari”.

Gli chiedo come abbia reagito la gente a questa inusuale sfilata: “Beh, gli anziani sono tornati indietro nel tempo ricordandosi dei carretti originali della loro gioventù, i bambini invece, coinvolti precedentemente in un workshop nel nostro laboratorio, sono rimasti particolarmente affascinati proprio dalla mula”.

Persino ora, nello spazio immacolato e sacralizzato della galleria, gli artisti si tengono ben lontani da ogni snobismo o concettualismo. Non sembrano particolarmente preoccupati che l’azione venga riconosciuta o meno come artistica; agli abitanti di Terrasini non è stato dato un comunicato stampa per interpretarla, l’hanno vissuta e tanto basta, nemmeno è rilevante che ai bambini sia piaciuto forse di più l’asino.

Vincenzo, altro artista del Laboratorio Saccardi, mi informa delle loro intenzioni a ripetere la performance a Roma, percorrendo un itinerario che tocchi luoghi politici come il Parlamento e i vari ministeri, il che sarebbe particolarmente pregnante, considerando che accanto a icone più ludiche (uno su tutti Frank Zappa, originario del paese dov’è stato recuperato il carretto originale), vengono rappresentate le più terribili stragi mafiose, sempre però con un’ironia caustica che poi corrisponde alla visione di questi giovani artisti sull’attualità: “Noi ci siamo persino limitati” mi spiegano“sui carretti originali erano raffigurate scene molto più violente”.

Ma aimè, il carretto è vuoto, al centro è rappresentata l’isola della Sicilia con il suo antico nome Sikania, lì vicino ci sono dei vasi e delle immagini che riprendono il repertorio iconografico del carretto, e la roba dov’è?

Svuotato il termine del suo originario significato materiale, la roba assurge a retaggio culturale, a memoria di un popolo, roba che diventa robba, perché, li scusasse Verga, così la si pronuncia nel siciliano.

E questo accumulo di simboli antichi e attuali, gli eroi moderni, ribelli, magistrati e cittadini trasfigurati in eroi epici, le loro storie oramai patrimonio culturale e affettivo dei siciliani, accostati con disinvoltura alla triscele con le Converse, e poi ancora scrittori come Lucio Piccolo nelle vesti di un mago, Pirandello nelle sembianze di un corvo, Sciascia che fuma un sigaro, ecco, tutto questo è la vera ricchezza di un popolo fierissimo, traboccante di ricordi e racconti, che in punto di morte griderà ancora “Roba mia, vientene con me!”

Naima Morelli

13 maggio 2010

Z2O Galleria – Sara Zanin , Roma

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