Naima Morelli

Archive
Italiano

erika

The italian web magazine Artribune just published the interview I had in Berlin with the collector Erika Hoffmann in her home/museum.

Lucas Leo Catalano took some pictures that give you an idea of how it was there. Amazing, in one word. Supercool.

Here you are the link to the interview

Read More

katerina

The italian web magazine Art a Part of Cult(ure) just published the interview I had in Berlin with the curator Katerina Valdivia Bruch. The interview is part of my reportage about Indonesian Contemporary Art.

Here you are the link to the interview

Read More

5

Ubud, Bali, Indonesia.
Non fatevi ingannare dalla bellezza del posto; dietro la luce che rende smeraldina l’erba, dietro le ranocchie spiaccicate sull’asfalto da jeep di passaggio e dietro le palme che sbadigliano sornione, c’è ancora tanto da fare, tanto da combattere.
Gede lo sa. Gede è nato qui e sua scelta di vita è stata quella di tornare a vivere ad Ubud, nelle risaie, dopo i suoi studi alla prestigiosa accademia d’arte nella capitale culturale dell’Indonesia, Yogyakarta.
Quello che rende la storia e l’arte di Gede così interessante è che, a differenza di molti artisti balinesi in fuga dell’isola o piegati al commerciale, lui ha deciso di rimanere e di condurre la sua battaglia sociale attraverso dipinti dalla satira feroce e plateali installazioni.
L’appuntamento è alla “Luden House”, un Warung/studio artistico inerpicato in una splendida zona di Ubud piena di ville in costruzione.
Se ancora avevo qualche dubbio su come trovare il posto, una grande scritta immacolata in mezzo alla risaia “NOT FOR SALE”, mi segnala di essere arrivata.
Gede, un ragazzo dal sorriso amichevole, si gode il sole ad uno dei tavoli fatto di copertoni verniciati di bianco – in Europa tale arredamento sarebbe già oggetto di design – mentre bambini allegri disegnano tutto intorno e ragazzine si fanno le foto davanti alla risaia.
Cominciamo a parlare in inglese, poi al momento di mostrarmi i suoi quadri, sceglie l’indonesiano.
Mi mostra questa serie di dipinti dove i protagonisti sono una rana avida, e un doberman.

– Di che si tratta questo lavoro?

Questa qui è una serie di cento quadri, non ancora terminata, concepiti come un fumetto. La storia parla di questa rana, rappresentante un po’ tutti i balinesi, che viene convinta da questo cane a vendere il proprio campo di riso.

Read More

alain3

“Ogni foto è un’esperienza.” conclude con accento francese, capello bizzarro, faccia gentile Alain Fleischer.
Prima di questa conclusione c’è ovviamente tutto il lavoro in mostra da Limen OttoNoveCinque, fotografie ad un primo sguardo cariche di mistero e quasi indecifrabili.

Il ciclo fotografico principale “Happy Days”, consiste in grandi stampe dove provare a descrivere il soggetto è già avventurarsi in un sogno surrealista: una cornice per terra, una proiezione di protagoniste femminili da quadri dell’antichità, un giocattolo a motore raddoppiato che sembra agitare la scena.
Gli effetti di sovrapposizione e illusione farebbero pensare ad un banale utilizzo di Photoshop: niente di più sbagliato. A differenza di quanto si possa credere, è solo questione di una grandissima abilità tecnica. Non di meno il processo con cui sono stati presi questi scatti è parte del simbolismo delle opere.
Spiega l’artista che si tratta della creazione di un collegamento del mondo adulto con quello infantile: “Gli adulti attaccano i quadri sempre alle pareti, i bambini giocano per terra. Ecco che proiettando un’immagine dall’alto, emerge questa impalpabile relazione.”
E si ci potrebbe inoltrare ancora più addentro a queste Correspondaces, in un gioco di rimandi infiniti.
« E’ la dimostrazione del potere della fotografia di catturare l’impalpabile ; io non ho mai visto queste immagini, esse esistono solo in quanto sono state fotografate. Questo giocattolo lo vediamo multiplo solo per via dei tempi di esposizione, così come questa proiezione che sembra scivolare fuori dal suo frame. »
Si avverte molta nostalgia in questi scatti, una suggestione malinconica come se l’artista volesse ricomporre il passato attraverso frammenti di luce.
Carpisco brani di discorso di un fruitore dalla fluente chioma rossa vicino a me : « … un ES invisibile che genera un superio etereo…»
« Prego? »

Read More

heridono

Luogo di coordinate 0:0, probabilmente in un fumetto.

Legata ad una sedia, in mano a scagnozzi mettiamo, chessò, russo-mongoli appassionati d’arte, pronti a scazzottarmi, sono costretta a rivelare cos’è, o meglio cosa ho scoperto, di quest’arte contemporanea indonesiana.

“Ma come faccio a dirvelo maledizione santa! L’arte contemporanea non si presta a definizioni, è fluida, non deve essere ingabbiata, non può…”
Smack!
Il primo cazzotto arriva e quasi mi fa saltare i denti.
Riprova.
“Ci sono tanti artisti diversi, ognuno con la sua poetica, la sintesi, la sintesi cari signori, è depauperazione!”
Non capiscono la parola.
Gli sembra troppo scolastica.
Smack!
Te lo chiedo un’ultima volta…
“Con le buone immagino…” rispondo sputando saliva vermiglia
… cosa cercavi in Indonesia?

Read More

Al ritorno dalla mostra in Via del Vantaggio, sede della Galleria Mara Coccia, fino a casa mia in Piazza Vittorio (non vi do l’indirizzo preciso perché non voglio i vostri bravi ad aspettarmi sotto casa dopo che avrete letto questa recensione), sono state tre le cose che mi hanno colpito assai di più che la mostra che mi ha spinto fuori dall’uscio.

In ordine: le ragazzine sotto la metro che commentavano l’appena conclusa settimana della cultura “…perché le cose gratuite fanno schifo, tipo Palazzo Barberini…” , poi un chitarrista in Piazza del Popolo che suonava ispirato Tracy Chapman, interrotto bruscamente da un’esplosione di una sigla assordante dal palco montato lì vicino, con tanto di ballerini vestiti da conigli che si lanciano sulla scena provando la coreografia, e tre una bionda malinconica simile a una giovane Marianne Faithfull seduta ai tavolini del Bar Rosati.

Tranches de vie irripetibili che sarebbe quantomeno inutile paragonare ai dipinti di Claudia Peill.

Certo, direte voi, la vita è sempre superiore all’arte, figuriamoci se non è superiore a IKEA.

Read More

“Quello che noto nelle mie opere è che tu le vedi e dici Uh che carine… ma poi le guardi con più attenzione è AAARRGH! Sono micidiali! Per me questa apparenza innocua è come una specie di presa in giro… e anche io in fondo sono così, più aggressiva di quello che sembro a prima vista!” mi dice Anita Calà in un impeto di passione di cui solo le rosse sono capaci.

Quattro del pomeriggio, siamo sedute, io, lei e  mio cappello (un Borsalino vintage grigio molto ghetto-chic, devo dire) al bar Ombre Rosse in Piazza Sant’Egidio, proprio di fronte al Museo di Roma in Trastevere.
Avevo incontrato l’artista qualche settimana fa alla Galleria Nube di Oort dove è esposta la sua videoistallazione “Anita C” nell’ambito di una collettiva, insomma, un buon pretesto per approfondire il suo lavoro.

La storia di Anita Calà come artista visiva sembrerebbe partire da quando, dalla mattina alla sera, decise di mollare il suo lavoro di costumista ad altissimi livelli per cinema, teatro e televisione, per buttarsi nell’unico ambito dove l’unica certezza è l’incertezza: l’arte contemporanea.
In realtà è cominciata molto prima: “Mi ricordo questa scena delle pagine gialle: ero piccolissima, le scarabocchiavo e nella mia mente ogni pagina era una persona con un suo vestito particolare”

Read More

Ricordate quando da bambini facevate i funerali agli uccellini morti nel giardino? Gli costruivate una piccola tomba, scavavate un fosso e lo cospargevate di fiori. Poi cantavate una preghierina mentre gli altri bambini vi stavano a guardare.
Come? Non avevate un giardino da piccoli?

Mi dispiace per voi, ma sono certa abbiate senz’altro la prontezza di immaginarvi in ogni dettaglio la commovente scena, e dunque di capire lo spirito di fondo con il quale Robberto (uno dei più validi tra i nuovi artisti sfornati dall’Accademia di Belle Arti), ha deciso di muoversi per questa performance.

Read More

 

Quanta ironia nel collocare una mostra dal titolo “Paura dell’Altro” proprio in una chiesa, quantunque sconsacrata: “Non ti dico che casino conla Sovraintendenzaper collocare la scimmia di Ragalzi sull’altare”, mi dice avviluppato in una mantella beige Carlo Pratis della Galleria Delloro (galleria tra i quali artisti figurano Paolo Grassino e, appunto, Sergio Ragalzi).
Ma andiamo ai fatti e bando all’anticlericalismo, che pure quella è una moda, e d’altronde il Papa ha pure ammesso che nelle Crociate c’era un piccolo errorino.

Si parlava di scimmie.
Allora, ce l’avete presente quando nel Libro della Giugla c’è quel tempio abbandonato, occupato (nel senso centrocialesco del termine) da oranghi?
Ecco, prendete quell’emozione che, sono certa, avrete senz’altro provato con i vostri nipotini o figlioletti sulle gambe, o magari proprio voi stessi in braccio a papino e mammina.
Prendete quell’emozione e intingetela in quelle notti dove, un po’ più grandicelli, non riuscivate a prendere sonno per paura della morte, del nulla: avrete Ragalzi con sua serie delle scimmie.

Può darsi non vi basti. Può darsi sentiate la necessità di contestualizzare la cosa.
Bene.

Immaginate di essere nati a Bassano del Grappa, e di avere nel cassetto un fazzoletto della Lega Nord, con vostra moglie sprezzante che lo usa per pulire il vaso da notte sotto il giaciglio coniugale. La vostra casa, nonostante l’opposizione della consorte dotata di un minimo di buon gusto, tracima di cianfrusaglie padane, suppellettili di legno, centrotavola rustici e coltellini svizzeri. L’arredamento in effetti sembra voler soffocare un certo horror vacui ma, ebbene si, tirando via il sipario è proprio questo che rimane: il Grande Vuoto.

Read More

 

Ecco cosa vedete, nascosti dietro al vetro a specchio.
In una stanza metafisica, bianca come uno spazio espositivo, io e l’artista Valentina De’ Mathà ci sediamo ad un tavolo candido, sul quale è adagiato un niveo foglio.
Io scrivo una domanda, e in silenzio passo il foglio a Valentina. Lei scrive la risposta, piega la parte superiore della carta in modo che non sia leggibile e mi ripassa il foglio.
Alla ventesima domanda Valentina si alza ed esce. Anche io faccio lo stesso, ma prima apro il foglio e ve lo attacco, dal verso leggibile, al vetro specchio.

C’è scritto questo:

Cosa c’è sotto?

Il caso che non esiste.

Perché vivi in Svizzera?

All’inizio perché ho improvvisamente sentito la necessità di staccarmi dall’Italia e soprattutto da Roma, verso la quale avevo un attaccamento morboso. Quindi, al culmine di questa morbosità, ho deciso di tagliare il cordone ombelicale e fuggire via senza guardarmi indietro, ma soprattutto perché mi sono resa conto, con estrema lucidità e amarezza, che l’ Italia non sarebbe stata in grado di darmi le opportunità professionali, il sostegno e i confronti di cui avevo bisogno, e che avrei trovato solo viaggiando.

Non era mio obiettivo trasferirmi in Svizzera, anzi, ma dieci giorni prima di partire verso Berlino ho conosciuto Roger Weiss, fotografo svizzero, colui che poi è diventato mio marito.

Ho visto artisti che sulla carta d’identità hanno scritto “artigiano”, tu invece?

Ho solo il passaporto.

L’hai mai persa la carta d’identità?

Mai.

Read More

 

Tano D’Amico lancia al registratore appoggiato sul tavolino uno sguardo lungo, obliquo, minaccioso, di assoluta disapprovazione. E si che è stato lui a dire che la macchina fotografica è stupida, ragionevolmente non considererà un registratore tanto più intelligente: “Preferisco che tu scriva quello che ti rimane impresso.”

Siamo seduti ad un bar vicino l’Accademia di Belle Arti di Roma, in Via di Ripetta, e già qualche studente si è seduto al tavolo con noi, accolto con allegria da Tano.
C’è un’empatia naturale e reciproca tra i ragazzi e il “loro” fotoreporter, quello che gli ha fornito le immagini mitologiche delle rivolte studentesche, dagli anni ’70 fino ad oggi, oltre le banalizzazioni “pornografiche”, come le definisce lo stesso D’Amico, che i media erogano a getto continuo: “Sono immagini brutte, che non aiutano a vivere, bloccano la memoria, spesso non aiutano nemmeno ad esorcizzare il presente. Sono immagini fatti con gli occhi del boia, in una sorta di compiacimento della crudeltà, con l’alibi della documentazione. In queste immagini il carnefice ha un quoziente di umanità maggiore della vittima e sono indispensabili per chi comanda.

Read More

 

La scimmia, animale ancestrale, sommo enigma più volte rappresentato dallo stesso Sergio Ragalzi (un grosso dipinto rappresentante il primate misterioso occupava lo stand della Galleria Delloro alla recente Roma Road to Contemporary Art), deforma anche il volto di queste venti sfingi in via del Paradiso.

Non più umani con il corpo felino, ma maestose sagome con il volto di scimmia, stagliate contro i colori di un deserto puramente mentale, creato apposta per un Indiana Jones o un Corto Maltese, o per qualsiasi altro Edipo viaggiatore dei nostri tempi o di quelli futuri, pronto a sedersi di fronte a lei, silohuette contro silohuette, lasciandosi porre questi indovinello.
Eppure, come il boa del piccolo principe, le sfingi di Ragalzi hanno inghiottito qualcosa che non gli appartiene, fino a diventare un tutt’uno con essa, in un rapporto di precisa identità.
E’ una bomba, il missile intelligente e distruttivo, quell’orrore prodigioso dall’intelligenza matematica. Ma cosa potrebbe chiedere il tremendo siluro alle sue vittime?

C’è sempre un quoziente di enigma in queste guerre senza senso, per noialtri a cui non interessa più di tanto il petrolio, se non al momento di fare il pieno. Petrolio del quale pure queste sfingi dal profilo scimmiesco paiono infradiciate come gabbiani nella marea nera.
Sfingi che sono macchie colpevoli, così come è oscura la colpa di Edipo. Scenari da Arabia Saudita, poi Egitto, ma anche Libia; questi dipinti sono un grido che emettono in coro. Gridano: “Inevitabile!”

Read More