Naima Morelli

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Interview

cover

My interview with artist Bindi Cole is the cover story of the Australian magazine Trouble.
The interview is part of my research about contemporary art in Melbourne.

You can read the magazine online at this link

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bee

The international magazine Women in the City just published my interview with the Taiwanese artist and busker Lin Bee Dwo.  The interview is part of my research about the Melbourne art scene.

Here you are the link to the interview

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adityachandra

The Italian web magazine Art a Part of Cult(ure) just published my interview to the Indonesian artist Aditya Chandra H.  The interview is part of my reportage about Indonesian Contemporary Art.

Here you are the link to the interview

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erika

The italian web magazine Artribune just published the interview I had in Berlin with the collector Erika Hoffmann in her home/museum.

Lucas Leo Catalano took some pictures that give you an idea of how it was there. Amazing, in one word. Supercool.

Here you are the link to the interview

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katerina

The italian web magazine Art a Part of Cult(ure) just published the interview I had in Berlin with the curator Katerina Valdivia Bruch. The interview is part of my reportage about Indonesian Contemporary Art.

Here you are the link to the interview

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Ubud, Bali, Indonesia.
Non fatevi ingannare dalla bellezza del posto; dietro la luce che rende smeraldina l’erba, dietro le ranocchie spiaccicate sull’asfalto da jeep di passaggio e dietro le palme che sbadigliano sornione, c’è ancora tanto da fare, tanto da combattere.
Gede lo sa. Gede è nato qui e sua scelta di vita è stata quella di tornare a vivere ad Ubud, nelle risaie, dopo i suoi studi alla prestigiosa accademia d’arte nella capitale culturale dell’Indonesia, Yogyakarta.
Quello che rende la storia e l’arte di Gede così interessante è che, a differenza di molti artisti balinesi in fuga dell’isola o piegati al commerciale, lui ha deciso di rimanere e di condurre la sua battaglia sociale attraverso dipinti dalla satira feroce e plateali installazioni.
L’appuntamento è alla “Luden House”, un Warung/studio artistico inerpicato in una splendida zona di Ubud piena di ville in costruzione.
Se ancora avevo qualche dubbio su come trovare il posto, una grande scritta immacolata in mezzo alla risaia “NOT FOR SALE”, mi segnala di essere arrivata.
Gede, un ragazzo dal sorriso amichevole, si gode il sole ad uno dei tavoli fatto di copertoni verniciati di bianco – in Europa tale arredamento sarebbe già oggetto di design – mentre bambini allegri disegnano tutto intorno e ragazzine si fanno le foto davanti alla risaia.
Cominciamo a parlare in inglese, poi al momento di mostrarmi i suoi quadri, sceglie l’indonesiano.
Mi mostra questa serie di dipinti dove i protagonisti sono una rana avida, e un doberman.

– Di che si tratta questo lavoro?

Questa qui è una serie di cento quadri, non ancora terminata, concepiti come un fumetto. La storia parla di questa rana, rappresentante un po’ tutti i balinesi, che viene convinta da questo cane a vendere il proprio campo di riso.

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Angki Purbandono in one of the artists from Indonesia that take the photography further and stimulate the discussion around it.
He was one of the founder of MES56 and a very appreciate international artist.

Before meeting him I thought his photography was all about aestetic
values. I found out that is not completely true.
Actually, to make people look at something from everyday life in a
different way is already a conceptual act.

Defamiliarisation of common objects, weird associations of items,
giantisation of small findings. Through Angki’s swiftian attitude one can
discover that the Beauty and the Strange are not so far from what we
experience in our daily life.

I’ve seen Angki’s scanner. It’s a normal scanner, not pretentious at all.
I asked Angki when and why he started using a scanner instead of a
camera:

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Most of Agung Kurniawan’s artworks are based on memory. In his famous charcoal work “Very Very Happy Victims” , part of Singapore Art Museum’s collection, he uses a raw irony to depict the situation under Suharto regime, from ’67 to ’98.

He explained me the genesis of this work during my visit to Kedai Kebun Forum:

“I made Very Very Happy Victims in 1995.  I was still a young an angry artist. It was a portrait of  myself and the society at that time because at that time Indonesia economy was one of the best in Asia. At the same time we lived in a kind of fascist regime. Everything was controlled by the government. Indonesia was the copycat of Orwell’s book 1984.
I asked my friends if they feel ok and they reply “Yes, I feel happy, I can eat at McDonalds, school is not expensive, I can have very cheap prize” . So I portrait my generation that felt very happy even though was oppressed by the government. This is the reason why I called it “Very Very happy Victims”. We were happy because we didn’t realize we were victims. If we realize it we can fight, that’s the idea. ”

More about Agung activities on: kedaikebun.com

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“Quello che noto nelle mie opere è che tu le vedi e dici Uh che carine… ma poi le guardi con più attenzione è AAARRGH! Sono micidiali! Per me questa apparenza innocua è come una specie di presa in giro… e anche io in fondo sono così, più aggressiva di quello che sembro a prima vista!” mi dice Anita Calà in un impeto di passione di cui solo le rosse sono capaci.

Quattro del pomeriggio, siamo sedute, io, lei e  mio cappello (un Borsalino vintage grigio molto ghetto-chic, devo dire) al bar Ombre Rosse in Piazza Sant’Egidio, proprio di fronte al Museo di Roma in Trastevere.
Avevo incontrato l’artista qualche settimana fa alla Galleria Nube di Oort dove è esposta la sua videoistallazione “Anita C” nell’ambito di una collettiva, insomma, un buon pretesto per approfondire il suo lavoro.

La storia di Anita Calà come artista visiva sembrerebbe partire da quando, dalla mattina alla sera, decise di mollare il suo lavoro di costumista ad altissimi livelli per cinema, teatro e televisione, per buttarsi nell’unico ambito dove l’unica certezza è l’incertezza: l’arte contemporanea.
In realtà è cominciata molto prima: “Mi ricordo questa scena delle pagine gialle: ero piccolissima, le scarabocchiavo e nella mia mente ogni pagina era una persona con un suo vestito particolare”

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Ecco cosa vedete, nascosti dietro al vetro a specchio.
In una stanza metafisica, bianca come uno spazio espositivo, io e l’artista Valentina De’ Mathà ci sediamo ad un tavolo candido, sul quale è adagiato un niveo foglio.
Io scrivo una domanda, e in silenzio passo il foglio a Valentina. Lei scrive la risposta, piega la parte superiore della carta in modo che non sia leggibile e mi ripassa il foglio.
Alla ventesima domanda Valentina si alza ed esce. Anche io faccio lo stesso, ma prima apro il foglio e ve lo attacco, dal verso leggibile, al vetro specchio.

C’è scritto questo:

Cosa c’è sotto?

Il caso che non esiste.

Perché vivi in Svizzera?

All’inizio perché ho improvvisamente sentito la necessità di staccarmi dall’Italia e soprattutto da Roma, verso la quale avevo un attaccamento morboso. Quindi, al culmine di questa morbosità, ho deciso di tagliare il cordone ombelicale e fuggire via senza guardarmi indietro, ma soprattutto perché mi sono resa conto, con estrema lucidità e amarezza, che l’ Italia non sarebbe stata in grado di darmi le opportunità professionali, il sostegno e i confronti di cui avevo bisogno, e che avrei trovato solo viaggiando.

Non era mio obiettivo trasferirmi in Svizzera, anzi, ma dieci giorni prima di partire verso Berlino ho conosciuto Roger Weiss, fotografo svizzero, colui che poi è diventato mio marito.

Ho visto artisti che sulla carta d’identità hanno scritto “artigiano”, tu invece?

Ho solo il passaporto.

L’hai mai persa la carta d’identità?

Mai.

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Tano D’Amico lancia al registratore appoggiato sul tavolino uno sguardo lungo, obliquo, minaccioso, di assoluta disapprovazione. E si che è stato lui a dire che la macchina fotografica è stupida, ragionevolmente non considererà un registratore tanto più intelligente: “Preferisco che tu scriva quello che ti rimane impresso.”

Siamo seduti ad un bar vicino l’Accademia di Belle Arti di Roma, in Via di Ripetta, e già qualche studente si è seduto al tavolo con noi, accolto con allegria da Tano.
C’è un’empatia naturale e reciproca tra i ragazzi e il “loro” fotoreporter, quello che gli ha fornito le immagini mitologiche delle rivolte studentesche, dagli anni ’70 fino ad oggi, oltre le banalizzazioni “pornografiche”, come le definisce lo stesso D’Amico, che i media erogano a getto continuo: “Sono immagini brutte, che non aiutano a vivere, bloccano la memoria, spesso non aiutano nemmeno ad esorcizzare il presente. Sono immagini fatti con gli occhi del boia, in una sorta di compiacimento della crudeltà, con l’alibi della documentazione. In queste immagini il carnefice ha un quoziente di umanità maggiore della vittima e sono indispensabili per chi comanda.

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