Valentina De Mathà, l’intervista
Ecco cosa vedete, nascosti dietro al vetro a specchio.
In una stanza metafisica, bianca come uno spazio espositivo, io e l’artista Valentina De’ Mathà ci sediamo ad un tavolo candido, sul quale è adagiato un niveo foglio.
Io scrivo una domanda, e in silenzio passo il foglio a Valentina. Lei scrive la risposta, piega la parte superiore della carta in modo che non sia leggibile e mi ripassa il foglio.
Alla ventesima domanda Valentina si alza ed esce. Anche io faccio lo stesso, ma prima apro il foglio e ve lo attacco, dal verso leggibile, al vetro specchio.
C’è scritto questo:
Cosa c’è sotto?
Il caso che non esiste.
Perché vivi in Svizzera?
All’inizio perché ho improvvisamente sentito la necessità di staccarmi dall’Italia e soprattutto da Roma, verso la quale avevo un attaccamento morboso. Quindi, al culmine di questa morbosità, ho deciso di tagliare il cordone ombelicale e fuggire via senza guardarmi indietro, ma soprattutto perché mi sono resa conto, con estrema lucidità e amarezza, che l’ Italia non sarebbe stata in grado di darmi le opportunità professionali, il sostegno e i confronti di cui avevo bisogno, e che avrei trovato solo viaggiando.
Non era mio obiettivo trasferirmi in Svizzera, anzi, ma dieci giorni prima di partire verso Berlino ho conosciuto Roger Weiss, fotografo svizzero, colui che poi è diventato mio marito.
Ho visto artisti che sulla carta d’identità hanno scritto “artigiano”, tu invece?
Ho solo il passaporto.
L’hai mai persa la carta d’identità?
Mai.
Ti piace, intendo proprio come parola, “identità”?
Assolutamente si. Credo fortemente nelle origini.
Cosa ti interessa di più nel tuo fare arte, la sincerità o la mistificazione?
Questo lavoro è così intimo che non si può non essere sinceri.
Il corpo, il tuo, quello degli altri, la natura e la banda degli dei. Come entra tutto questo nel tuo lavoro?
Il mio lavoro èuna ricerca continua sul comportamento dell’uomo di fronte all’imprevedibilità ed ineluttabilità degli eventi e, di conseguenza, alle sue instabilità emotive e reazioni di fronte agli imprevisti e ai mutamenti improvvisi e inevitabili.
Il corpo riprodotto è solo la conseguenza di ciò che la mente gestisce.
Quanto di sociale e quanto di glamour c’è in quello che fai?
Mi interessa la simbiosi tra uomo, natura e l’eterno mutamento.
C’è un criterio unico che il tuo “fruitore ideale” dovrebbe adottare, al di là dell’apertura dell’opera, nell’interfacciarsi con i tuoi lavori?
I miei lavori nascono per essere lasciati liberi di creare intrecci slegati da me in quanto artista.
Veniamo alle note dolenti: la Biennale. Quanto riesci ad essere diplomatica parlandone?
È così facile far polemiche su questa Biennale che lascio siano gli altri a farle.
Per quanto mi riguarda posso solo dire che lo spazio e l’allestimento del Padiglione abruzzese all’Aurum di Pescara siano i migliori di tutto il Padiglione Italia.
Purtroppo in Italia è prassi che si focalizzi l’attenzione solo sulle cose che non vanno anziché valorizzare ciò che c’è di positivo.
Raccontami un po’ il lavoro che hai portato. Senza descriverlo possibilmente.
È un opera commemorativa delle 308 vittime del tragico terremoto che il 6 Aprile 2009 ha devastato L’Aquila.
È un’installazione scultorea intitolata “Silenzio” e parla del silenzio dopo il boato del terremoto e delle case che sono crollate frantumandosi in macerie, il silenzio dopo le grida di terrore, ma anche un silenzio di riflessione.
Davanti a queste catastrofi non si rimane indifferenti e tutto assume un altro valore, tutto cambia di significato.
L’opera invita al silenzio come segno di rispetto, ma anche ad un silenzio meditativo.
L’intento principale di questo lavoro è stato che tutti i corpi nascessero da un’unica matrice come noi nasciamo tutti dalla Madre Terra, che fossero composti da un materiale organico che, come il corpo umano, subisce i cambiamenti del tempo e torna nella Terra che lo ha visto nascere e, per questo, ho scelto la carta. Oltretutto ho ritenuto importante usare un colore neutro come il bianco a simboleggiare un’identità collettiva e non individuale.
È un’installazione su cui sto lavorando da circa due anni per via del numero elevato – 308 – di sculture e dei tempi di lavorazione.
In concomitanza alla Biennale ho donato una delle sculture dell’installazione alla città di L’Aquila con l’Assessore Pierluigi Pezzopane a rappresentare la città e Dario Pallotta come padrino d’eccezione, rugbista dell’Aquila Rugby e colui che, nella tragica notte del terremoto, ha salvato la vita a diverse persone.
L’opera è stata posta sotto i Portici di corso Vittorio Emanuele, angolo Piazza Duomo e sarà presente fino al suo completo deterioramento, alla base è stata posta una targa commemorativa.
Che relazione ha con la tua produzione precedente?
Tutti i miei lavori sono legati l’un l’altro da un filo conduttore, questo esposto alla Biennale di Venezia è un ulteriore passo avanti della mia ricerca di vita.
Cosa significa per te la Biennale adesso?
Ho creduto che l’invito al Padiglione Italia in Abruzzo della 54a Biennale di Venezia e il 150° anniversario dell’Unità d’Italia, quale titolo del Padiglione stesso, fossero l’occasione migliore per dare il giusto peso a questo progetto incentrato sulla mia Terra e che era mio obiettivo esporre proprio in Abruzzo.
Per quanto mi riguarda non intendo sminuire questa Biennale, anzi, provo un grande rispetto per quello che rappresenta e mi fa piacere che Gianluca Marziani mi abbia segnalata.
Ti esprimi con vari mezzi. Al quale ti sei avvicinata prima, e come?
Ho iniziato a 4 anni a dipingere e lavorare con l’argilla, a11 afotografare.
Dei primi due mi stregava e attraeva l’odore e la matericità.
Invece sono assolutamente ossessionata dalla fotografia ed è l’unico mezzo di cui non credo che potrei fare a meno.
Con quale di questi ti trovi più a tuo agio?
Dipende da quale di questi mezzi mi permette di esprimere in modo più efficace i progetti che costituiscono la mia ricerca.
Quello che mi interessa è la qualità del risultato finale, per questo cerco di non pormi mai dei limiti.
Come vivi i luoghi?
Con viva curiosità e alcuni con totale chiusura e ostilità, di conseguenza con vie di fuga.
Come vivi il tempo?
Di corsa e con impazienza.
Come vivi il vivere qualcosa?
Con tanta fame
L’estetizzazione della vita. Molti ci cadono e diventano stranieri. Tu?
Sono alla ricerca dell’Essenza.
E poi, in fin dei conti, perché?
Per una più alta consapevolezza dell’Essere.
intervista pubblicata su Art a Part of Cult(ure)