Naima Morelli

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April, 2008 Monthly archive

Maledetto.
Maledetto è l’aggettivo che svela il collegamento tra rock’n roll e la boheme.
Già la beat generation aveva attinto a piene mani dall’opera dei maudits e dopo di loro i poeti-rockstar hanno guardato ad entrambi; eppure questa roba, queste immagini, questa attitudine, è tutta ancora valida, sempre bollente, mai totalmente innocua.
C’è poco da fare; nessun accademico, pur inserendolo nelle antologie scolastiche, riuscirà mai a ripulire la reputazione di Arthur Rimbaud, che era un ribelle, un fuggitivo, uno scapestrato, in breve una canaglia, come lo definisce già nel titolo il saggio di Benjamin Fondane (recentemente tradotto da Le Nubi).
Il fatto era che il giovane bohemien odiava la mentalità chiusa e provinciale dei suoi compaesani di Charville, odiava la sua vita grigia, si sentiva oppresso dalla madre, dalla sua eccessiva preoccupazione per la rispettabilità, dalla rigida morale, dalla religione vissuta in maniera soffocante, quindi cos’altro poteva fare, se non fuggire? Fuggì allora, ma non a casa della nonna.
Prese il treno per Parigi.
Fu proprio nell’intenso periodo parigino che scrisse la famosa “Lettera del veggente” dove diceva, in breve, che per pervenire all’ignoto bisognava sregolare i sensi mediante l’uso di droghe, che poi è quello che teorizzerà anche Aldous Huxley prendendo il titolo del suo libro da un famoso verso di William Blake, un altro grande poeta pazzo ispiratore del rock.
Già, “Le porte della percezione”. D’altronde lo sappiamo tutti, gli anni di Huxley erano i ’60 quando rigetto dei valori borghesi e l’abbandono dalla casa parentale erano diventati qualcosa di più della fuga isolata di un ragazzino francese dal ciuffo spettinato.

Ed ecco allora Rimbaud scrivere in una lettera indirizzata al suo professore di Francese, quasi a dare voce a tutti i futuri sessantottini,:“Lei non è più insegnante per me. Io Le dono questo: della satira, come direbbe Lei? Della poesia?È la fantasia, sempre. – Ma, La scongiuro, non sottolinei né con la matita, né troppo con il pensiero…”.

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A guardarlo l’impressione è quella di assistere ad un solenne incontro di tre meravigliose balene argentate ma a quanto pare l’Auditorium di Renzo Piano è come le nuvole: ognuno lo interpreta come vuole, secondo la sua ispirazione del momento.
C’è chi chiama le tre sale scarabei, chi le paragona ad armadilli e diamine! le ho sentite anche paragonate a dei panini avvolti nella carta argentata, ma ufficialmente si chiamano Santa Cecilia, Sinopoli e Petrassi.

In realtà l’Auditorium nasce per l’esigenza di colmare una frattura urbana tra la collina di Parioli e la pianura fluviale del Tevere dove era stato costruito il villaggio olimpico a ridosso del quartiere Flaminio. Nel ’94 il comune di Roma bandisce una gara internazionale, e il progetto vincitore risulterà quello di Renzo Piano, che di concorsi ne ha vinti parecchi (basti pensare che in questo modo ha avuto occasione di realizzare il famosissimo Beaubourg, in collaborazione con Rogers).

Di Piano si è detto che perseguisse “la versatilità poetica delle forme e delle idee”. A guardare la sua opera omnia, almeno fino ad adesso, compiuti da poco 70 anni non dà accenni di voler smettere, è difficile dargli torto. C’è chi lo accusa di non avere uno stile riconoscibile, un complimento per uno per il quale lo stile corrisponde ad una gabbia, le cui sbarre sono i vincoli ad elementi architettonici sempre presenti nell’opera di un architetto; la sfida è attingere da tutti gli stimoli possibili per cambiare ogni volta. Più che i detrattori quindi, sono alcuni estimatori a fargli torto, elevandolo a archistar, una rockstar della progettazione, definizione che a Piano rifiuta. Piuttosto bisogna riconoscere che nel suo Auditorium Parco della Musica di rockstar vere e proprie con tanto di chitarra dalla sua inaugurazione nel 2002 ne sono passate parecchie, visto che il comune di Roma organizza continuamente concerti e spettacoli in questo centro multifunzionale.

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In qualche caso si è trattato di affrontare all’andata un mare burrascoso in aliscafo e un altrettanto traumatico ritorno in circumvesuviana, ma i pur strazianti sussulti, cigolii e stridii di un treno che sembra sempre essere sul filo del deragliamento, non si sono rivelati bastevoli a dissolvere nella tensione la dolce dimensione-illusione anticoromana che poi era la meta del viaggio.
Il  titolo scelto per la mostra ospitata dal Museo Archeologico di Napoli è “Alma Tadema e la nostalgia dell’antico”, una spettacolare rassegna di artisti di fine ‘800 capaci di far rivivere in pennellate vita quotidiana e antichi fasti di un mondo del quale non rimangono che rovine e le testimonianze pompeiane. Questi artisti lavoravano organizzandosi dei grossi archivi fotografici di pezzi originali, molti dei quali sono attualmente conservati all’interno dello stesso Museo Archeologico che, con un operazione di grande interesse, ha deciso di esporli a fianco dei quadri che li ritraggono.
L’esposizione è intitolata al pittore olandese adottato dell’Inghilterra Sir Lawrence Alma Tadema, artista fino ad ora ingiustamente poco considerato in Italia. In realtà, girando per le sei sezioni allestite si fatica a ritrovare i quattordici quadri promessi.
C’è da dire però quei pochi pezzi esposti, probabilmente neanche i più rilevanti, sono spettacolari.

Dalle grandi tele impeccabili nell’accostamento cromatico, descrittive senza perderne in poesia, precise e evocative, ai piccoli acquerelli e oli (uno su tutti, “la scala”, tavola oblunga e stretta in una cornice dorata, un raffinato oggetto-idolo  per cui perdere la testa) tutto in Alma Tadema ti dà l’impressione di affacciarti alla finestra della storia.
Chi ha avuto modo di poter ammirare i suoi quadri solo in riproduzioni certo non rimarrà deluso. D’altronde fino ad ora un Alma Tadema così non si era visto in Italia, e chissà quando accadrà ancora…

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nieletoroni

Ci sono artisti che non si abitueranno mai all’invadenza della tecnologia in campo artistico, ce ne sono altri per il quale lavoro si rende indispensabile, e infine c’è chi pur non utilizzando per niente il mezzo tecnologico lo richiama nella propria opera a livello subconscio. Subito dopo c’è Niele Toroni.

Com’è possibile che il più minimalista dei pittori la cui ricerca artistica si basa sulla ripresa dell’essenza della pittura evochi così distintamente un immaginario diametricalmente opposto?

Basta pensare ai pixel.

Sono pixel i quadratini di pittura monocromatica con cui Toroni ritmicamente dipinge le grandi tele, la carta, le pareti della galleria Artico; invariabili sono le misure del pennello che utilizza (il n.50) e i centimetri di intervallo tra un segno e l’altro (30 cm).

Eppure, proprio quando ci si convince di questa analogia, quando lo sguardo si fa più indagatore, ci si rende conto che sotto l’apparente schematicità, ogni impronta è diversa dall’altra, per quanto impercettibilmente.
Ed è proprio allora che l’uomo, impone la propria imperfezione, un’artistica imperfezione, contro la fredda perfezione della macchina che diventa così mera ripetizione, non più arte ma matematica.

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sarahmcginity

Più pop di una Big Bubble, più rancida di un frutto marcio, equivalente in termini di valori (o assenza di valori) forse solo a un “Destroy” di Isabella Santacroce, la mostra “Past is History” si offre come un’interessantissima, entusiasmante immersione nell’immaginario sfegatatamente suggestivo di quattordici giovani artisti inglesi, una furiosa visione che poi è quella di tutta la loro generazione.

La prima parte della mostra si è aperta il 28 maggio presso la sede romana della Galleria Changing Role, e il 30 maggio la seconda parte nello spazio napoletano; questo ha permesso all’artista Alexis Milne di preparare la performance “The Resurrection of Don Dirty Honky” che si sarebbe mossa tra le due gallerie come trait d’union, mettendo in scena, tramite una bara colorata da graffiti, la morte e la resurrezione del suo personaggio.

In un primo tempo l’idea trainante che avrebbe dovuto accomunare gli artisti inglesi sarebbe dovuta essere un’ispirazione gotica horror, era previsto il titolo “Ring Generation” proprio per sottolineare come capolavori fantasy come “Il Signore degli Anelli” abbiano profondamente influenzato le ultime generazioni. Questa suggestione iniziale, poi accantonata dalla maggior parte degli artisti della collettiva, permane in termini molto evidenti soprattutto nelle opere ad olio di John Stark, il quale si propone con paesaggi cupi, desolati, impregnati di una estetica da ciclo fantasy, sempre sottintesi come scenario di una narrazione. Sulla stessa scia, ma più inquietantemente acida e punk, è la grande tela di Kiera Bennett, maestra nel creare paesaggi dai toni verdastri, metafisici specchi di giovanili emozioni e paure. Nel caso di Alex Gene Morrison, le angoscie e i sentimenti umani si concretizzano in un enorme mostro nero, identificazione non immediatamente comprensibile non conoscendo la precedente opera dell’artista “Black Bile”, spalleggiato da altri piccole creature.

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Centoventi opere tra dipinti, sculture e disegni; insomma, è una panoramica a tuttotondo, esaustiva e completa, quella offerta dal Museo MADRE di Napoli, a dieci anni di distanza dall’ultima esposizione italiana di Georg Baselitz.
C’è da dire che Baselitz non è proprio tra quegli artisti che hanno avuto un percorso lineare: espulso, perché giudicato inadatto, dalla Hochschule für bildende und angewandte der Kunst di Berlino Est, riesce a trasferirsi a Berlino Ovest. Prosegue dunque gli studi alla Hochschule für bildende Künste; evidente già nei suoi primissimi lavori la sua incredibile capacità di creare un figurativismo sempre sull’orlo dell’astrattismo.
Il vero scandalo e la vera e propria fama arrivano nel 1963: in occasione della mostra alla galleria di Michael Werner e Benjamin Katz, vengono sequestrati per oscenità Der nackte Mann e il famoso Die große Nacht im Eimer.
In effetti, soffermandosi ad osservare il suo lavoro esposto nelle sale del MADRE, ci si accorge di una lucida e generale volontà da parte di Baselitz di “scandalizzare il borghese”.
Ai dipinti del primo periodo, quelli più disturbanti sia nei soggetti che nell’esecuzione che nei colori (non è un caso che l’artista sia lasciato ispirare dall’arte prodotta da persone affette da disturbi mentali e soggetti emarginati), ne seguono altri all’insegna del realismo critico da lui propugnato nel Manifesto Pandemonico. Chiare si palesano le influenze dell’espressionismo astratto francese e del minimalismo americano condito con un pizzico di intellettualismo derivato dalla pop art che proprio in quegli anni dominava lo scenario artistico.
Il dato che però emerge limpido, in tutta la sua opera, è il tentativo di voler trasporre degli eventi psichici in funzioni fisiche. Questo può sì avere una lettura individuale, ma è tanto più applicabile alla coscienza collettiva, considerando in particolare il momento storico e geografico vissuto da Baselitz e da tutta la sua generazione, inevitabilmente influenzata dalle problematiche del dopoguerra tedesco.
Sebbene quindi il movente di gran parte dei dipinti sia sostanzialmente lo stesso, c’è da dire che l’artista, tenendo fede alla sua reputazione di eversivo, ha sempre cercato di rompere in maniera netta con quello che aveva realizzato in passato. Dopo una fase successiva alla sua realizzazione piena del realismo critico, lo vediamo infatti attingere, merito anche al soggiorno fiorentino del 1965, al manierismo, al quale si deve l’ispirazione per la creazione delle figure eroiche ribattezzate “nuovi tipi”.
Un’altra svolta decisiva si ha con la rielaborazione della lezione cubista, che lo porta a realizzare opere “spezzettate”, le Streifenbilder . Grazie alla delimitazione di linee che separano le varie strisce sfasate tra di loro, quasi si trattasse di un fumetto, l’artista riesce a dare l’impressione di un’alterazione spaziale e temporale.

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Non si tratta di disseppellire vecchie ideologie defunte, men che meno di celebrare i grandi schieramenti del secolo scorso, nazismo e comunismo(in questo caso non ideologie astratte ma riferite con esattezza ai due grandi totalitarismi di Hitler e di Stalin): la questione, in effetti, viene posta in termini meno semplicistici e parte da presupposti molto più profondi.
Dice l’autore del misfatto artistico, per così dire, Gian Marco Montesano: “La questione di sapere se sia giusto o ingiusto demonizzare l’intera Germania a causa del Nazionalsocialismo, così come lo stabilire se i crimini di Hitler siano inferiori, superiori o equivalenti ai delitti di Stalin mi è del tutto estranea. La problematica che mi ha sempre occupato non è mai stata di ordine politico quanto piuttosto di natura concettuale: stiamo parlando della natura del Male”. Da cristiano ex militante nelle file populiste Montesano si interroga, come ogni donna o uomo dotati di un minimo di approccio critico alla realtà: “Cos’è esattamente il Male?”

Partendo dal presupposto che il Male è insito nella creazione, nella storia e nelle singole persone, l’artista non pretende di trovare col proprio lavoro una risposta definitiva a interrogativi che i migliori teologi e filosofi non sono mai riusciti a risolvere. Il compito dell’arte, si sa, non è quello di sciogliere ancestrali dilemmi, piuttosto si occupa di sensibilizzare l’individuo:“Ho sempre e solo inteso tradurre, nell’eloquenza semplice e diretta delle immagini, la persistenza di un problema centrale e, evidentemente, insolubile”

Impossibile restare in uno stato d’animo indifferente, passando in rassegna le pareti della galleria Umberto di Marino dove sono esposti i dipinti di Montesano, riproduzioni fedeli di manifesti propagandistici di regime. Nell’accostamento delle immagini a coppie, l’una ad esaltare la dittatura nazista, l’altra quello comunista, si nota immediatamente come queste siano, in termini di meccanismi comunicativi (persuasivi per meglio dire) ed elementi grafici, sostanzialmente simili: entrambi accattivanti come manifesti cinematografici.

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“Goodbye my darling”, il titolo dell’ultima mostra del giovane fotografo Danilo Correale, è un titolo fortemente ironico.
Sembra essere un addio un po’ melenso agli anni ’70, e in effetti l’esposizione è focalizzata proprio su quegli anni, ma non quei “mitici settanta” mistificati dalla moda delle passerelle, piuttosto quelli più tipicamente “da giornale”. E’ particolarmente significativo che un artista così giovane analizzi degli anni che non lo hanno coinvolto in prima persona, ed è ancora più interessante osservare il distacco e la pianificazione con la quale conduce il discorso, evitando nostalgie di sorta che sarebbero risultate fin troppo facili.

L’impatto grafico è immediato: attraverso foto di vette di montagna vengono trasfigurati i grafici e le statiche in uno strano connubio economico-onirico, mentre una linea nera corre sulle pareti inseguendo una data, il ’73, l’anno della crisi petrolifera.

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E’ il Palazzo delle Arti di Napoli ad aprire le porte alla prima mostra monografica in ambito italiano dell’artista croato Svjetlan Junakovic.

Fin dal titolo “Il circo volante di Svjetlan Junakovic”si palesano chiari gli intenti ludici dell’artista, la cui opera è stata sempre caratterizzata da un approccio giocoso alla trasfigurazione della quotidianità. La voglia di libertà lo porta ad uno sconfinamento tra materie tematiche e linguaggi differenti, con una strizzata d’occhio ai grandissimi dell’arte del passato (specialmente quelli più vicini alla sua sensibilità; sono infatti ricorrenti riferimenti alla “danza” di Matisse e alle tematiche circensi di Picasso).
La mostra si può grossomodo suddividere in due parti, distinte per stile e tematiche.

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Continua il sodalizio tra la galleria napoletana Umberto di Marino Arte Contemporanea e l’artista giapponese Satoshi Hirose (cominciato nel 2004 con la personale “Pas au de-là), continua la fusione di linguaggi e culture messe in atto dall’artista come ribellione alla globalizzazione; una fusione creatrice in contrapposizione ad una fusione che appiattisce, confonde, appanna e delude.

Così è tra metafisica e fruizione di un’estetica della leggerezza, che si colloca “Microcosm” l’ultima esposizione di Saroshi Hirose.

“Mi muovo come un viaggiatore, o un vagabondo di cultura, all’interno di culture differenti” dichiara nei suoi Sei memorandum per il prossimo millennio lo stesso artista, indicando in quest’ottica l’arte come spazio astratto privilegiato in cui muoversi liberamente, dove il mix di elementi e culture è permesso. Solo in questa dimensione è possibile concretizzare la tematica che sta più a cuore all’artista: il viaggio attraverso la pluralità.

Viaggio come comunicazione, traduzione e scambio, soprattutto come cambio di prospettiva in un mondo troppo rigidamente predefinito. E’ questo il senso di accostare dettagli apparentemente incongruenti; spezzare la consuetudine, creare nuovi parametri, ampliare i valori umani, catturare la flessibilità stratificata della vita contemporanea e risolvere l’incertezza che relaziona l’individuo al mondo.

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