Non chiamatemi Poeta
Potrebbe essere solo una posa, questo è vero, ma d’altronde quando si sceglie di fare l’intellettuale alternativo e ci si riesce pure, non è categoricamente ammesso soddisfare le legittime aspettative di nessuno, né del più accanito fan né del più severo critico.
Infatti, ecco che vediamo che quanto più i critici musicali e gli ammiratori si accaniscono a dare del “poeta” al proprio beniamino, con la chiara intenzione di fargli un complimento, tanto più il beniamino stesso rifiuta sdegnoso la definizione.
A parte il fatto che i fan non hanno un minimo di buon senso; basti pensare che chiamano poeta pure Ville Valo degli HIM che certo, come musicista sa il fatto suo, sicuramente ha un’ugola d’oro, senza ombra di dubbio è un gran bel ragazzetto, ma in quanto a ispirazione omerica stiamo messi male. Chiariamoci: niente in contrario a continuare ad utilizzare i soliti ritriti concetti legati a amore e morte e farlo anche in maniera abbastanza banale, e d’altronde lo stesso cantante degli HIM non ha mai avanzato nessuna pretesa, quindi il problema non si pone per nessuno! Insomma, chissenefrega se sotto i video di YouTube le ammiratrici in fregola, solitamente ragazzine che non superano i diciannove anni, scrivono di Ville “Che uomo, che poeta” (“com’è sexy” “me lo farei proprio” etc. etc.) , problemi loro, quelli sono i loro orizzonti, probabilmente lo scrivono anche di Bill Kaulitz sotto i video dei Tokio Hotel (dove ad ogni “che uomo” segue un’inevitabile, oramai prevedibile “Perché? E’ un’uomo?”), ma di questo non sono sicura perché francamente non ho mai sentito l’esigenza di andare vedere un video dei quattro marmocchi tedeschi.
Il problema, il problema vero, si pone quando gente di una certa autorità letteraria ci mette lo zampino, Fernanda Pivano, ad esempio, che pure ci ha scritto un libro sopra: “I miei amici cantautori”.
Nanda non lesina sugli aggettivi a proposito dei “poeti di oggi” come li chiama lei, insomma, è talmente gentile da sembrare quasi indelicata.
Bob Dylan è “una specie di Omero del Ventesimo secolo”, De André, “il nostro poeta più bravo”, Jim Morrison, “capace di estasi e affranto dalle miserie della vita”, e Kurt Cobain, “l’ultimo antieroe dei nostri tempi”.
E’ indubbio che su molti di questi nomi è impossibile dissentire, o almeno noi, anime prive d’ispirazione, non ci penseremmo nemmeno. Quindi, visto che nessuno si fa avanti, ci pensano loro stessi a demolirsi con le loro stesse mani.
Bob Dylan ad esempio, e qui potete pure immaginarvelo con le sembianze di Ben Winshaw come nel film “Io non sono qui” dove la sua versione di Dylan si chiamava non a caso “Arthur Rimbaud” :”No, non sono un poeta, non mi piace il termine. Io sono un artista del trapezio”.
A definirlo un artista del trapezio non ci avevo pensato proprio nessuno, né il grande critico musicale Lester Bangs che si riferiva a lui come il più grande poeta americano, successore di Ginsberg, né il musicologo Alessandro Carrera che scrive di lui: “Dylan è senz’altro un poeta, ma non dello stesso genere a cui potrebbero appartenere T.S. Eliot o Montale. È un poeta perché ha inserito nel suo medium, che è quello della canzone, tutta la forza della poesia, del simbolismo, del modernismo di fine Ottocento e del Novecento. Ma Dylan resta soprattuto un cantante, che è più di un autore di canzoni o di un autore di versi per canzoni, perché il cantante deve saper unire i differenti media che sta usando e trasformarli in qualcosa che è di più della somma delle differenti parti.”
Trovandoci a bazzicare nel rock, è quasi il caso di pescare Jim Morrison. Il “buffone dionisiaco” (ancora Bangs) che per sua stessa definizione “beve per scrivere poesie”, secondo l’opinione corrente non era altro che un poeta prestato al rock. Ovviamente, un poeta di media bravura è un cantante genialmente ispirato, mentre un cantante qualsiasi, per quanto ispirato, sarà sempre un poeta abbastanza mediocre; vedi il nostrano Ligabue di cui si encomia sicuramente l’impegno, ma di certo non si può dire che il suo “Poesie d’amore in frigo” abbia la stessa efficacia di un “Tempesta Elettrica”, ovvero l’edizione italiana delle opere poetiche del Re Lucertola. E qui, per una volta, aspetto fisico e morte prematura non c’entrano quasi nulla.
Patti Smith invece, che si è ispirata sia a Bob Dylan sia a Jim Morrison, ma soprattutto al maestro spirituale di entrambi, Rimbaud, si è cimentata elle aussi con dei libri di poesia dagli eloquenti titoli “Presagi di Innocenza” o “Il sogno di Rimbaud” (eccolo lì). Patti Smith che, lo ricordiamo, la prima volta che ha incontrato Bob Dylan si è sentita rivolgere la domanda “Ci sono poeti qui?” pensando bene di risponde con la tipica attitudine punk “No, la poesia mi fa schifo”.
Trasferiamoci in Italia. La nostra terra che in tempi più proficui ha partorito tanti geni letterari può fregiarsi di aver circostanziato una categoria ben precisa, quella dei cantautori.
Premettendo che, proprio come nel caso degli HIM o dei Tokio Hotel, nessuno prende sul serio Simona Ventura quando a “X Factor” presenta un brano di Gianluca Grignani indicando l’autore come “uno dei più grandi poeti dei nostri tempi”, passiamo agli universalmente riconosciuti. De Andrè, in primis, un incontestabile per tutti se non da quel simpatico nasone di Edoardo Sanguineti che forte di essere un poeta “ufficiale” disprezza dal punto di vista liricola Canzonedi Marinella, che magari si, è veramente un po’ troppo facilmente patetica, però sappiamo che Fabrizio ha scritto anche di molto meglio. Ma in fin dei conti era lui stesso era il primo a cacciare fuori, appena gli si domandava fatidicamente “Mi scusi, ma Lei è un Poeta?” una citazione di Benedetto Croce, ovvero che chi persiste nel far versi oltre i 18 anni o è un poeta o è uno stupido. Quindi lui preferiva definirsi un cantautore. O artigiano delle parole.
Poi ancora Guccini, presente oltre che nei negozi di dischi anche nelle librerie, in quest’ultimo caso persino nello scaffale delle novità, a quanto pare, grazie al suo “Icaro”. Guccini, uomo di grande levatura di cui molti tollerano a stento la r rotante ma all’unanimità apprezzato per i testi pregni di significato. E poi Ivano Fossati, Francesco De Gregori, Paolo Conte…E’ proprio l’avvocato con il vizio del Jazz, com’è stato definito, a costringerci a soffermarci su un altro vezzo comune a moltissimi musicisti, Capitan Beefheart in primis: affermare di non conoscere il significato delle proprie canzoni. Certo, è una cosa fantastica scrivere parole a casaccio che suonano evocative, non era forse un movimento letterario il dadaismo?
Che dice il sommo Mogol in tutto questo? Interpellato in occasione della prima edizione del “Premio Mogol”, premio riservato al miglior testo dell’anno, consegnato (figuriamoci in che tempi bui ci troviamo) a Jovanotti, il paroliere ha avuto modo di dire “Credo che la poesia stia cambiando, nel senso che diventa più aderente alla vita. Una volta la poesia era fatta di belle parole, di frasi compiaciute, ridondanti, che davano ‘anche’ emozioni; però anche la poesia un po’ più rude e ruvida non è meno incisiva, anzi a volte lo è di più; e quindi la poesia deve essere proprio fatta di contenuti, di cose vere, che magari non ha ancora detto nessuno ma sono vere. Per me e gli altri giurati questo discorso dei contenuti è stata la cosa importante, e ci è parso che il testo di Fango di Jovanotti sia il più sentito, quello che trasmette il suo senso senza alcun tipo di sovrastruttura, senza nessun tipo di impedimento: direi quello più sincero”.
Bei discorsi, certo, ma qual è veramente il punto? E’ che scrivere una canzone presuppone che un pensiero, per quanto stupido o banale, sia solitamente riportato in forma leggermente più inusuale per forza di cose, per inserirlo in una frase musicale. “Quindi…” si sporge come a trarre la conclusione definitiva il fan di Gigi D’Alessio “.. è POESIA!”. Si certo caro, ma tu cerca di imparare almeno il 5 Maggio a scuola, che sei stato pure rimandato, e comunque il 5 maggio, la prima strofa, la conoscono tutti ma sono sempre convinti di saperla solo loro, quindi nessuno si meravigli se si mettono a declamare lì aspettandosi ammirazione e magari anche qualche applauso per la loro eccezione, la loro bravura, la loro incredibile memoria. Ma se è vero che basta scombinare la struttura sintattica della frase per fare versi, davvero ci troviamo in un rinascimento letterario i cui protagonisti, dall’alto del loro palco, scuotono con aria di superiorità la testa: “Fatemi la cortesia, non chiamatemi poeta!”
Pubblicato su Radioland
Naima Morelli 2009